Il maestro di Roberto Vecchioni che disse alla madre “suo figlio non capira’ mai niente di musica”

Crazy horse (Dance, dance, dance) 1971

Roberto Vecchioni, classe 1943, tra tutti i cantautori italiani e’ quello che mi e’ sempre  piaciuto poco. Io sono un battistiano, amo Paolo Conte e De Gregori. Punto. Adesso cerchero’ di spiegare sine ira et studio perche’ ho sempre considerato Vecchioni un grande bluff, a cominciare dal fatto che non quando canta o scrive, ma quando parla, in tv o sui giornali, a me appare di una banalita’ sconvolgente, il tipico umanista che ha fatto degli studi classici la sua coperta di Linus. Professore di liceo, dunque. La cosa piu’ falsa che in tutti questi anni hanno scritto su di lui e’ la seguente: Un tipo di contatto, quello con la scuola e gli studenti, che forse gli ha permesso di restare coi piedi per terra. Con più di sei milioni di dischi venduti  ha continuato a fare il professore, mentre oggi c’è gente che senza aver fatto niente di rilevante va in giro con le guardie del corpo.

Queste parole sono del 2017 e le ha dette  intervistandolo Luca Valtorta di Repubblica. Vecchioni ci narrava del com’era da professore:

“Quando insegnavo, molte volte uscivamo dalla classe: le chiamavamo ‘Ore di follia’. Andavamo al parco, camminavamo, un po’ alla peripatetica, e partivamo da un tema, che so: le stelle. Quali autori hanno parlato delle stelle? E dal punto di vista scientifico? E poi: tu che cosa diresti sulle stelle? Inventati qualcosa in questo momento. Ognuno poteva dire la sua. Questo esercizio secondo me serve tantissimo: esula dalla norma, è creativo e ai ragazzi piaceva moltissimo”. Ore di follia, le chiamava. Per cosi’ poco? Ma quanti sono i docenti che hanno utilizzato e utilizzano questa pratica didattica (che in Finlandia e’ la norma perche’ gli studenti finlandesi, circondati come sono da immensi boschi e foreste, studiano fuori, nella natura, biologia, il bosco e quant’altro), che io stesso, all’IPA di Soveria Mannelli, da supplente annuale, praticavo pur insegnando diritto ed economia? No, lui se ne vanta. Il professore di liceo che tende a costruirsi il Se’ come “diverso” dai colleghi (magari e’ solo “differente”) ha poi, nella realta’ lo stesso problema che hanno tutti, quello di riuscire a tenere la classe, a far mantenere un minimo (giusto l’essenziale) di disciplina ed ecco allora che l’elasticita’ si riconverte in rigidita’.

LV=Ma guai a pensare al professore un po’ freak, del sei politico: Vecchioni era severissimo, rimandava e bocciava. “Certo. Anche perché il liceo classico non è una scuola dell’obbligo; te la scegli. Molti erano figli di avvocati, di professionisti. Spesso viziati. Quindi è giusto avere un certo rigore nell’insegnamento. Un insegnante deve essere credibile. Un cantautore può esserlo meno”. Magari e’ per questo che una volta e’ finito sui giornali perche’, organizzato un compleanno per un figlio a casa sua, i compagni di classe gliel’ hanno messa sottosopra trafugando per giunta tutto quello che potevano.  Vedete, nella letteratura italiana c’e’ una coppia, Domenico Starnone e la moglie, Elena Ferrante (nom de plume) che ci hanno gia’ spiegato tutto nei loro romanzi sui professori di liceo. Non c’e’ da aggiungere nulla, i professori (piu’ si ritengono bravi piu’) sono molto frustrati dal lavoro in classe (si pensi alla scrittrice Paola Mastrocola) e quindi tentano (uno su 1000 ce la fa) di fare lo scrittore ( D’Avenia, Lodi, Onofri, Lodoli, Raimo, Veladiano, Albinati, Galiano) oppure il professore universitario. Vecchioni si e’ buttato sulla canzone.

Questo parallelo tra cantautore e insegnante e’ il leit motiv di tutta la sua vita, una contraddizione per me insanabile che ha in tanti anni tentato di spiegare, di razionalizzare, di poetizzare quando invece, sotto sotto, e’ prosaica e ben comprensibile a tutti. In uno sforzo supremo di sincerita’ senile nel 2017 la spiegava bene:

LV=Sarà stato difficile riuscire a coniugare il suo impegno come professore con quello di musicista.
“Allora i concerti erano piuttosto concentrati: i fulcri erano l’Emilia, la Lombardia e la Toscana, con i vari Festival de L’Unità, per cui riuscivo quasi sempre a suonare la sera e ritornare per la mattina. Poi magari dormivo qualche ora al pomeriggio. Nei periodi di maggior impegno ho preso alcuni mesi di congedo, ma per me era anche una sfida”. L’unico motivo cioe’ per il quale e’ riuscito a fare il professore e insieme il cantautore e’ che non vendeva dischi e faceva solo pochi concerti. Fino a quando non ha scritto Samarcanda.

LV=Allora lei è diventato una celebrità.
“Da un giorno all’altro. In una settimana ho venduto 70mila copie quando in tutti gli anni precedenti ne avevo vendute 3, 4mila. Quell’anno ho fatto un centinaio di concerti”.

Come abbia poi fatto da quel momento a conciliare insegnamento e canto non lo sapremo mai a meno che non parliamo con i suoi colleghi di scuola o i suoi presidi, ma il privato interessa poco perche’  e’ il talento musicale di Vecchioni quello che dovrebbe interessarci di piu’. Nella vita sara’ anche stato un professore in gamba come tanti che abbiamo conosciuto tutti, ma quel che e’ interessante e’ il suo profilo musicale. Sentiamolo.

LV=Suonava anche uno strumento?
“Sì, la chitarra”.

LV=Come ha imparato?
“Ho chiesto a mia madre se potevo andare a lezione e lei mi ha detto: ‘Scegli tu: io ti do i soldi per la partita o per la chitarra’. Così ho dovuto scegliere tra l’Inter e la chitarra, è stato drammatico ma alla fine ho scelto la chitarra. Dopo quattro lezioni il professore ha chiamato mia madre e le ha detto: ‘Guardi, io le rubo i soldi perché suo figlio non capirà mai niente di musica’. E infatti ho smesso: sono andato avanti per conto mio, ho imparato gli accordi e ho trovato un mio stile. Comunque non sono un grande suonatore di chitarra”.

LV=L’intonazione c’era già?
“Quella sì. Un dono naturale. È molto strano perché mio fratello è stonato, i miei figli, tranne una, sono stonati. Io invece ho capito subito che riuscivo a prendere le note: ne sentivo una e la ricantavo uguale. Registravo tutto perché non ho mai saputo scrivere la musica ma non ne avevo bisogno: se una musica mi colpiva me la ricordavo. Quando compongo parte tutto da una frase che mi fulmina, per esempio ‘questa maledetta notte dovrà pur finire’, e poi le costruisco tutto intorno. È anche una sfida all’ascoltatore: non deve essere tutto chiaro, lineare. Ci deve essere una fatica della mente ma anche del cuore per arrivare a decifrare un testo. Poi, quando pensi di aver capito e magari ascolti una volta e un’altra volta ancora, scopri che è più bello arrivare in quel modo alle cose: hai percorso una strada che è quella che porta alla creatività”.

LV=Immaginava già di farlo come mestiere?
“Assolutamente no. Non esistevano ancora i cantautori: Paoli e Tenco sono arrivati qualche anno dopo. Io intanto facevo cose complicatissime, senza speranza che potessero arrivare al pubblico. Infatti mi sembrava che questi primi cantautori scrivessero canzoni molto più semplici. Però lo facevano come piaceva me, senza urlare, senza virtuosismi vocali, lasciando parlare i sentimenti. Comunque scrivere canzoni è sempre stato difficile. Io ho scritto romanzi, poesie, saggi: la cosa più dura per me resta comporre una canzone. È dura perché in quei tre, quattro minuti, ci deve stare tutto quello che vuoi dire e non hai una rete sotto come con la narrativa, che ha un respiro lungo”.

LV=Qual è stato il primo approccio professionale?
“Mi sono proposto per fare il famoso ‘lavoro sporco’, grazie ad Andrea Lo Vecchio che era già un autore della Ricordi. Venne a cantare a una festa di liceo, io gli feci sentire i brani che componevo e lui disse: ‘Facciamo qualcosa insieme’. E così è stato. Naturalmente dovevamo realizzare qualcosa di molto più semplice rispetto a quello che scrivevo io: canzoni per cantanti. E anche traduzioni. Traducevo i testi delle canzoni di Rod Stewart, che venivano poi reinterpretate in italiano da altri artisti, di Sinatra, ad esempio la sua My Way. Era un lavoro”.

LV=Quanti anni aveva?
“Ventidue, stavo finendo l’Università. A quel punto conoscevo già tutte la case discografiche perché il mestiere era questo: si andava di casa in casa a proporre canzoni per i cantanti”.

Ecco, attraverso questo suo racconto adesso dovrebbe essere tutto piu’ chiaro. Vecchioni non sa la musica, infatti lui scriveva i testi, come De Andre’, e la musica la metteva Lo Vecchio. Lui faceva, come Mogol, il traduttore italiano delle cover. Prendevano un successo straniero, ci scrivevano il testo in italiano e lo davano ad un cantante (Gigliola Cinquetti, Patty Pravo, gli Homo Sapiens, I Nuovi Angeli). Questo mestiere di paroliere era del tutto compatibile con l’insegnamento.”Io sono stato assistente di Storia delle religioni alla Cattolica e mi piaceva moltissimo. Però la carriera universitaria richiedeva un impegno totalizzante, era impossibile portare avanti entrambe le cose. E poi cosa succede? Succede che Vecchioni imbrocca la cover giusta per se’, ed e’ Samarcanda, il suo successo del 1977, “ispirato” da un brano di Neil Young. Da notare, fate una ricerca sul web, che il brano riporta come autore il solo Vecchioni.
Roberto Vecchioni trova il grande successo immedesimandosi nel soldato che non riesce a sfuggire al suo ineluttabile destino. Con il magico violino di Angelo Branduardi e l’insospettabile ombra di Neil Young.

I Crazy Horse, band storica di Neil Young, esordirono nel 1971 con il loro primo album omonimo, al cui interno c’era una canzone scritta dal canadese, “Dance, Dance, Dance” (ascoltatela sopra) , contraddistinta da un fiddle insistente che produceva una sorta di giga prima di ogni parte cantata (Young avrebbe pubblicato anni dopo la sua versione, con l’armonica al posto del fiddle).

Questa melodia dovette affascinare molto Vecchioni, che nel 1977, all’indomani di Elisir, diede alle stampe l’album col quale raggiunse finalmente il grande successo, trainato proprio dal brano che lo intitolava: Samarcanda. Una filastrocca ironica (“Oh-oh, cavallo oh-oh”) che racconta la sventura di un soldato, ma sul brano ci torniamo alla fine. Adesso dobbiamo dire che allora il mercato delle case discografiche funzionava cosi’: ottenuto un successo commerciale, si prendevano le vecchie canzoni passate inosservate del cantante, e le si proponevano come se fossero inedite. Luci a San Siro e’ addirittura del ’68. L’ho scritta la prima settimana di militare. Era una canzone per la vita e prevedevo persino il mio futuro (ride, ndr): ‘Mi venderò, farò schifo…'”.

LV=Ha avuto subito successo?
“Alcune trasmissioni radio la mandavano sempre. Allora però c’erano solo Popoff e Per voi giovani che passavano un certo tipo di musica. Vendette poco più di 1.500 copie, mentre nello stesso periodo Guccini vendeva 50, 100mila copie. Poi, nel tempo (dopo il successo di Samarcanda), ha avuto sette edizioni ed è diventata una delle più amate dal pubblico, ma fino a Samarcanda non ho venduto praticamente nulla”.

LV=In quegli anni lei come era schierato politicamente?
“Io ero comunista, ma non ero legato ai vari gruppi. Ero insegnante al Beccaria già nel ’74 e vedevo bene i contrasti tra le varie fazioni, Potere Operaio, Lotta Continua, gli anarchici e ovviamente i fascisti. Non mi piacevano”.

LV=C’è differenza per lei tra canzone e poesia?
“Tantissima. Non a caso Salvatore Di Giacomo aveva un cassetto della sua scrivania per le poesie e uno per le canzoni. Ha ragione Dylan, che l’ha spiegato molto bene nel suo discorso: la canzone segue la musica, segue le note. È tutto un altro sistema di costruzione, anche atemporale, se vogliamo: pensiamo alla Szymborska. Non puoi musicare quello che ha scritto. Niente resta in musica delle sue poesie perché intanto la metrica non c’è e poi ci sono mille evocazioni che in una canzone ti farebbero sperdere. La sua genialità è proprio quella, mentre la canzone deve avere un cuore, un centro. Lo stesso vale per Montale, che infatti diceva che la poesia non ha bisogno di musica perché ha già la sua musica dentro. O Alda Merini.

Già dal principio c’era stata una forte divaricazione nella musica italiana, all’inizio degli anni Sessanta, che io ho sentito moltissimo, tra quella che veniva chiamata ‘canzone d’autore’ e la canzone ‘popolare’. E quindi Dalla Mea, Pietrangeli, Il canzoniere del Lazio etc. da una parte, con dietro i loro teorici, e dall’altra invece i cantautori che venivano considerati ‘borghesi’, non politicizzati, cantori dell’io, del singolo, e quindi delle menate personali. Mentre gli altri sì che erano attenti ai bisogni del popolo. Naturalmente in termini di divulgazione i ‘bisogni del popolo’ al popolo non interessavano per niente, quindi quel tipo di teorizzazione non trovò in realtà mai un riscontro ‘popolare'”.

LV=Un paradosso apparente che in effetti spiega molto della sinistra italiana.
“In effetti credo di sì, perché invece i cantautori hanno dimostrato di essere in grado di arrivare a tutti. Poi, certo, sono arrivati anche Guccini, Bennato e altri a dire cose più politiche, ma i genovesi degli inizi erano sicuramente molto più ‘personali’. L’industria ha capito benissimo che la canzone popolare non andava per cui si è buttata immediatamente sui cantautori ma in maniera furbesca, non certo militante o culturale: ‘Questi vendono e allora noi li tiriamo fuori’ e vai con 100mila copie di Bennato e di Guccini. Quando uscì Samarcanda la Polygram aveva in catalogo 35 cantautori! Bisogna dire che se l’industria non avesse avuto questa intuizione usando i suoi mezzi pubblicitari la musica degli anni Settanta forse sarebbe stata diversa. O forse no, perché i due fenomeni erano legati da un rapporto di causa-effetto”.

LV=È anche l’unico ad aver vinto tre premi completamente diversi: quello al Festivalbar, al Tenco e, nel 2011, Sanremo.
“Come il triplete dell’Inter (di cui Vecchioni è grande tifoso, ndr)!”. Penso che sia importante riuscire a esprimersi in modi diversi cercando sempre di tenere alta la propria attitudine”.

LV=In Chiamami ancora amore, con cui ha vinto Sanremo 2011, è riuscito evidentemente a conquistare diverse generazioni oltre che pubblici diversi, dal momento che dietro una melodia accattivante ci sono frasi come “stanno uccidendoci il pensiero/ la memoria gettata al vento/ questa notte dovrà pur finire”. È finita la notte?
“No. Ma dobbiamo crederci sempre che può finire, anche se non avverrà mai: il segreto della felicità sta proprio in questa attesa continua, in questo ‘non lo sappiamo’. 

Il segreto della felicita’ sta proprio in questa attesa continua, dice Vecchioni a tutti noi come se dovessimo ritagliare la frase  per conservarla nel diario. Peccato che Leopardi con la poesia ” Il sabato del villaggio” nel 1829 ci aveva gia’ spiegato con acume e profondita’ tutto sulla vanità dell’attesa della festa: il piacere, che ognuno degli abitanti si aspetta, non giungerà mai, ma permarranno la noia e la tristezza dell’esistenza umana (“diman tristezza e noia | recheran l’ore” ). La giovinezza è un periodo felice, perché si attende con ansia e gioia l’entrata nell’età adulta, come quando il sabato ci si prepara per il giorno di festa; tuttavia il passaggio di età non porterà gioia, ma si rivelerà doloroso e privo di piacere. Quel genio del poeta conclude allora con un’apostrofe a un “garzoncello scherzoso”: “Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’…”. È un invito esplicito al “garzoncello” (simbolo dell’ingenuità umana e dell’inconsapevolezza di ogni fanciullo) a non desiderare di affrettare la crescita nell’ansia di diventare adulto. In questo componimento infatti il piacere è considerato da Leopardi come l’attesa di un benessere venturo, che, una volta raggiunto, si rivela vuoto e illusorio. Un pensiero molto piu’ acuto di quello vecchionesco secondo cui  “dobbiamo credere sempre che il segreto della felicità stia proprio in questa attesa continua’”…

SAMARCANDA 

La canzone con il ritornello piu’ infantile dell’intera musica italiana, quel ‘oh oh cavallo oh oh’ che sembrava un gioco, la cantavano tutti, anche i bambini. Al centro del pezzo c’e’ la problematica del destino.

A proposito di destino, se ascoltate Ciao amore ciao, l’ultima canzone di Luigi Tenco, presentata al 17° Festival di Sanremo nel gennaio 1967, noterete subito che nel brano il ritornello e’ giustapposto. E’ stata una imposizione dei discografici per portare la canzone sul palco di Sanremo. Quel bruttissimo ritornello, invece di stamparsi nella mente rovina il pezzo scritto da Tenco.

Samarcanda e’ tratto da una storia archetipica presente in molte culture (Le sonorità ci trasferiscono in Oriente e la storia, drammatica, trova riscontro in altre narrazioni letterarie soprattutto orientali, in cui si racconta il rientro di un soldato dalla guerra).

“Adesso però non la scriverei più così, perché ieri avevo un concetto oppressivo del destino, beffardo. Oggi, invece, penso che l’uomo possa dominare molto del proprio destino, anzi credo proprio che il destino sia in buona parte nelle nostre mani. Del resto non auguro a nessuno una vita felice: senza combattimento non c’è felicità”.

Samarcanda, quante volte l’avremo canticchiata da quel lontano 1977, anno in cui vide la luce? Un testo orecchiabile, sonorità allegre e ballabili, Samarcanda è sicuramente il brano al quale Roberto Vecchioni deve tutto. Il violino di Angelo Branduardi, il ritornello divertente ” Oh Oh cavallo, oh oh” l’hanno resa subito famosissima: Vecchioni, però, avvertì sin da subito una grande insoddisfazione: il pubblico non aveva affatto colto il senso e il significato di Samarcanda e del suo testo.

Fra la folla in festa, il soldato scorge una donna vestita di nero. Ella è la personificazione della morte La prima strofa, infatti, dice:

Ridere, ridere, ridere ancora,
ora la guerra paura non fa
brucian le divise dentro il fuoco la sera
brucia nella gola vino a sazietà.
Musica di tamburelli fino all’aurora
il soldato che tutta la notte ballò
vide tra la folla quella nera signora
vide che guardava lui e si spaventò.

Una volta riconosciuta la Morte, il soldato chiede al sovrano un aiuto per fuggire via, a Samarcanda:

«Salvami, salvami, grande sovrano
fammi fuggire, fuggire di qua
alla parata lei mi stava vicino
e mi guardava con malignità».
«Dategli, dategli un animale
figlio del lampo, degno di un re
Presto, più presto perché possa scappare,
dategli la bestia più veloce che c’è».

La fuga prende il via, con l’ausilio del famoso cavallo del ritornello:

«Corri cavallo, corri ti prego
fino a Samarcanda io ti guiderò
non ti fermare, vola ti prego
corri come il vento che mi salverò.

Oh oh cavallo, o-oh cavallo,
oh oh cavallo, o-oh cavallo, oh oh!»

Scorrono veloci i paesaggi, ma all’arrivo a Samarcanda il soldato ha una brutta sorpresa: la nera signora è anche lì e lo attende. Quindi, sbigottito, chiede spiegazioni alla donna:

Fiumi, poi campi, poi l’alba era viola
bianche le torri che infine toccò,
ma c’era tra la folla quella nera signora
e stanco di fuggire la sua testa chinò:
«Eri fra la gente nella capitale
so che mi guardavi con malignità
son scappato in mezzo ai grilli e alle cicale,
son scappato via ma ti ritrovo qua»

La risposta della Morte racchiude il vero significato del testo narrato: la morte è inevitabile, il destino deve compiersi così com’è scritto e non si può fuggire a esso. Infatti la signora risponde:

«Sbagli t’inganni ti sbagli soldato
io non ti guardavo con malignità
era solamente uno sguardo stupito,
cosa ci facevi l’altro ieri là?
T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda
eri lontanissimo due giorni fa,
ho temuto che per ascoltar la banda
non facessi in tempo ad arrivare qua».

La sua fuga, quindi, non ha fatto altro che assecondare il suo destino, portandolo dritto in braccio alla donna nera da cui credeva di fuggire. Lei in realtà lo attendeva lì. L’ultima strofa sembra offrire uno spiraglio di speranza, che non è altro che vana illusione:

«Non è poi così lontano Samarcanda
corri cavallo, corri di là
ho cantato insieme a te tutta la notte
corri come il vento che ci arriverà.
Oh oh cavallo, o-oh cavallo,
oh oh cavallo, o-oh cavallo, oh oh!»

Si parla di Morte, quindi, e della sua ineluttabilità.

La cosa piu’ assurda ma anche la piu’ istruttiva che e’ legata proprio a questo brano, avvenne durante un concerto a Bologna in onore di Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua ucciso nel ’77. Quando Vecchioni esegui’ Samarcanda (convinto di andare sul sicuro perche’ quel suo successo popolare avrebbe scaldato tutti), il pubblico al contrario si alterò. Ritenuta una canzone non adeguata all’evento perché troppo allegra, le proteste furono tanto aspre da costringere Vecchioni a lasciare il palco. Non aveva capito il professore che i compagni (e gli italiani in genere) i testi delle canzonette manco li leggono.

Il pubblico non aveva capito il significato di Samarcanda e Vecchioni subì moltissimo questa grande disattenzione, tanto più che dietro un testo dai chiari riferimenti letterari si celava anche una motivazione più intima: la morte del padre, che sembrava essersi salvato dalla malattia, ma dovette fare i conti, appunto, con l’inevitabilità della Signora Morte.

Insomma, il grande successo (come gli successe poi a Sanremo nel 2011) di Vecchioni e’ stato sempre una sorpresa inaspettata che lui non e’ riuscito mai a capire. L’esatto contrario di Battiato, che consapevolmente scelse di perseguire il successo discografico dopo le sue canzoni del periodo sperimentale (“Ho capito come si costruisce una canzone di successo, adesso ve lo dimostrero'”). Vecchioni no. Sicuro di poter avere il successo di Guccini e De Gregori, di Dalla e De Andre’, lo ha invece ottenuto per caso, grazie ad un brano di Neil Young che lui ha riadattato raccontando una storia presente nella tradizione orientale. Un semplice paroliere che come Mogol con Battisti si e’ (auto)convinto di essere un poeta.

Nella vita tutti abbiamo le nostre convinzioni. C’e’ qualcuno in giro, mi piace dire sempre, che magari si e’ convinto di essere la reincarnazione di Hitler oppure qualcuno convintosi che a pranzo una oliva verde sia preferibile ad una carbonara.