Siamo tutti stati Forrest Gump nella nostra vita

(…)   Però per quanto sentimentale e prevedibile potesse essere, “Forrest Gump” non era un successo scontato (i successi scontati non esistono, tantomeno quelli “costruiti a tavolino”, ci fosse un tavolino dove si pianificano gli incassi faremmo tutti i produttori). Anzi, a un certo punto non lo voleva produrre nessuno. Arrivò in sala così come lo vediamo solo perché Zemeckis e Tom Hanks si incaponirono e ci misero tanti soldi di tasca loro, secondo il mantra che manda avanti tutte le imprese: se ci credi, investici sopra (ogni riferimento a fatti o persone del cinema italiano di interesse culturale è puramente casuale). La sceneggiatura, tratta dal romanzo di Winston Groom, circolava a Hollywood da un bel po’. Però non funzionava. I guri degli Studios dicevano che il romanzo era bello, ma troppo incasinato per il cinema. Tirarne fuori un film era impossibile. Ci provò per prima la Warner. Furono stesi vari trattamenti. Ma nel frattempo al cinema era arrivato “Rain Man”. Dustin Hoffman vinceva l’Oscar, applausi della critica, incassi pazzeschi. Gli executives non avevano dubbi: un film con un ritardato subito dopo un autistico è troppo rischioso. Il progetto fu accantonato. Dopo un paio d’anni se lo ricomprò la Paramount, e qui inizia un’altra storia. Ingaggiato per la sceneggiatura, Eric Roth stravolge il libro di Groom. Via molti capitoli, via il cinismo, quindi cambio di tono, di registro, e al centro la storia d’amore tra Forrest e Jenny, che in Groom era invece defilata. Zemeckis manda il nuovo script a John Travolta. Ma Travolta non si commuove, non gli piace, non è convinto. Pensa allora a Bill Murray, Sean Penn, Matthew Broderick. L’unico che si infiamma è Tom Hanks, che era appena morto di Aids in “Philadelphia”. Tom Hanks diventa Forrest Gump e un po’ di Forrest Gump gli resterà sempre addosso: ecco Forrest Gump nello sbarco in Normandia, naufrago su un’isola deserta dopo un incidente aereo, apolide intrappolato nell’aeroporto JFK.

Anche la Paramount comunque ci credeva pochino. Iniziò a tagliare il budget, spaventata dalle scene in Vietnam e dai costi esorbitanti di una marea di effetti speciali all’epoca quasi impensabili (far chiacchierare Forrest Gump con Kennedy o Nixon, far sparire le gambe del tenente Dan, ferito in Vietnam, cancellando quelle dell’attore Gary Senese al computer). A quel punto Zemeckis e Hanks fanno di testa e di tasca loro. Il budget supera i 50 milioni. Ma il film ne incassa 680 in sala.

Quella di “Forrest Gump” era la storia giusta al momento giusto. Se il bambino paraplegico che diventa un corridore imprendibile ci porta nel cuore del solito, vecchio algoritmo hollywoodiano, Hanks e Zemeckis toccavano anche altre corde. Siamo all’alba dell’era Clinton. Il mondo bipolare è ormai alle spalle. La minaccia comunista un lontano ricordo. La Storia, che in quel momento sembra finita, ha dato ragione all’America. Clinton è un presidente “baby boomer”, il primo nato dopo la Seconda guerra mondiale. Ci sono le incertezze di una nuova economia globale, una rivoluzione informatica ancora misteriosa, lo sgomento di un’America che senza un nemico chiaro e netto deve reiventarsi una sua nuova “indispensabilità”. “Il mondo ha bisogno di un’America forte”, dice Clinton, “e un’America forte comincia in casa”. “Forrest Gump” si mescola a questa svolta anche generazionale della presidenza Clinton, e alla sensazione di essere entrati nell’ultimo scorcio temporale del secolo americano. E allora “Forrest Gump” schiaccia il pedale della nostalgia, un sentimento che sembra fatto apposta per gli anni Novanta e che la nuova tecnologia digitale può rivitalizzare in forme e modi inediti. Quella nostalgia per un’America pura e giovane che Robert Zemeckis aveva già messo in scena una decina d’anni prima in “Ritorno al futuro” e che ora in “Forrest Gump” diventa straripante. L’America si guarda indietro, si abbandona un flusso di ricordi, sensi di colpa, fantasmi, paure collettive. Nel suo primo discorso di insediamento, Bill Clinton dice che “non c’è nulla di sbagliato in America che non possa essere corretto da cosa è giusto in essa”. Una frase perfetta anche per “Forrest Gump”. Una di quelle che avrebbe potuto dirgli sua madre (come il celeberrimo, “It’s the economy, stupid!”, slogan della prima campagna elettorale).

Per i nostri millennial “Forrest Gump” è un film di formazione, come un classico Disney, di quelli da vedere tutti in famiglia da piccoli. Il filmone americano con cui si è cresciuti. Stava anche nei libri di inglese, “Unit 1”, “Lesson 1”, e si usa molto nei videocorsi perché Tom Hanks parla piano, scandisce, lo capiscono tutti. “Ho imparato la storia americana del Novecento con Forrest Gump”, mi dice un mio nipote. Quella italiana invece resta un po’ un buco nero. Non abbiamo “Forrest Gump”, dove ti infili in una storia collettiva che non è la tua ma che lo diventa dopo cinque minuti di film. Qui abbiamo “La meglio gioventù”, e quindi allusioni, strizzatine d’occhio tra complici, la sensazione, per chi non ha vissuto quegli anni, di essere capitato per caso in una riunione di ex compagni di Lotta Continua dove non eri stato invitato. Nel ‘94 a “Forrest Gump” preferivo di gran lunga “Pulp Fiction”. Ricordo però che uscito dal cinema mi era rimasta appiccicata addosso, come a tutti, quella frase, “la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”. Solo che io pensavo ai gianduiotti, ai “Baci Perugina”, coi cioccolatini tutti uguali schierati dentro la scatola, e mi sembrava misteriosa come un haiku. Non capivo: ne prendi uno o un altro è uguale. Mi crollava insomma tutto quel discorsetto molto americano, sul caso, la fortuna, l’audacia, l’ottimismo, le infinite varietà e possibilità del mercato.