Aldo Grasso contro i processi in tv

Immagino che il titolo provvisorio sul caso di Yara Gambirasio fosse «Massimo Bossetti è innocente», poi ne è stato trovato uno più garantista, più consono alla civiltà del diritto. Il Caso Yara: Oltre Ogni Ragionevole Dubbio è l’inchiesta in cinque puntate diretta da Gianluca Neri (quello di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano), scritta con Carlo G. Gabardini ed Elena Grillone (Netflix).

Lo scrupoloso racconto ripercorre la tragica vicenda di Yara Gambirasio, scomparsa a soli 13 anni una sera del novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) vicino alla palestra in cui si allenava in un corso di ginnastica ritmica. Attraverso testimonianze, ricostruzioni, interviste esclusive (comprese quelle allo stesso Bossetti e alla moglie Marita Comi) e materiali inediti si esplorano gli eventi legati al caso, le accuse di depistaggio e i sospetti sui metodi investigativi. La vasta eco mediatica e le pressioni della politica hanno influito sul verdetto finale di condanna? L’ergastolo è stato comminato al di là di ogni ragionevole dubbio?

Un atto d’accusa contro il pm Letizia Ruggeri
La ricostruzione di Neri sposa le tesi della difesa e genera molti sospetti sui metodi investigativi accennando, talvolta, a possibili depistaggi. È un duro atto d’accusa contro il pubblico ministero Letizia Ruggeri (la Procura aveva in mano un solo elemento su cui investigare: sul corpo della ragazza era stata trovata una traccia di DNA maschile. È l’inizio di una delle indagini più complesse e sorprendenti dei nostri tempi, condotta per quattro lunghi anni), contro quella sorta di «ipnosi collettiva» che avrebbe influito non poco sull’esito del giudizio.

«È più facile puntare il dito contro una persona, condannarla, piuttosto che ammettere di aver fatto un grosso sbaglio. È da tanto tempo che aspetto questo momento», sostiene ora Massimo Bossetti, l’uomo condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2018.

L’angoscia trasformata in format
Da subito i media, e in particolare certi talk televisivi, hanno trasformato il caso di Brembate di Sopra in uno show, esattamente come era successo con Garlasco, Novi Ligure, Cogne, Erba, dando sempre l’impressione di essere assetati più di sensazionalismo che di giustizia.

In un vortice infernale, le trasmissioni sui delitti hanno colonizzato i palinsesti, sono diventate rubriche fisse dei contenitori pomeridiani e domenicali, si sono serializzate, dando vita a un racconto che da anni sta ossessionando l’Italia. La vera vittima di ogni talk è ancora una volta la vittima stessa (in questo caso, Yara), sempre usata, sempre al fondo delle nostre coscienze.

Serializzare il dramma significa non soltanto riproporre in continuazione un episodio di cronaca nera particolarmente doloroso, significa anche trasformare l’angoscia in un format. Non è un problema morale, è innanzitutto un problema linguistico. La serializzazione rischia di sganciare l’omicidio dalla realtà giudiziaria per immergerlo in un universo narrativo, con le sue regole, i suoi tempi. La tv ha trasformato il delitto di Brembate di Sopra in un evento mediale, facendo forza su alcuni espedienti narrativi.

Un’indagine costata quattro milioni
Primo: l’incertezza sul colpevole che ha permesso alle varie compagnie di giro dei talk di arrischiare le più svariate congetture. Secondo: i continui colpi di scena, spesso morbosi, che hanno caratterizzato e indagini: dalla scoperta dell’imputato di non essere figlio di Giovanni Bossetti (la madre avrebbe avuto una relazione con Giuseppe Guerinoni) ai presunti tradimenti della moglie Marita Comi.

Terzo: secondo il professor Emiliano Giardina, lo scienziato che ha ricostruito lo scenario genetico dell’indagine in cui sono stati analizzati più di tredicimila tamponi, si è trattato di «un’operazione avveniristica, la prima al mondo». Il costo complessivo dell’indagine ha superato i quattro milioni.

Una metaserie sulla tv morbosa
Quello che è più difficile da calcolare sono le ore di trasmissioni tv generate dal caso: un’esagerazione, da quando la tv generalista si nutre quasi morbosamente di cronaca nera. In un’infernale spinta, in un’eterna coazione a ripetere, le trasmissioni sui delitti hanno colonizzato i palinsesti.
Proprio per questo, Il Caso Yara: Oltre Ogni Ragionevole Dubbio sembra una metaserie sulle molte serializzazioni realizzate dai singoli programmi, a partire da Chi l’ha visto? fino ai molti appuntamenti delle tv locali.

Sembra un’antologia del dubbio, che trae da vecchie trasmissioni sequenze capaci di riaccendere i sospetti sulla maestra di ginnastica Silvia Brena, gli spostamenti del custode della palestra («Non sono mai stati indagati», precisa la voce fuori campo), i video fake che i carabinieri usarono per mostrare l’andirivieni del camioncino di Bossetti davanti alla palestra di Yara.

Se l’avvocato difensore diventa il protagonista
Sembra che i due protagonisti principali siano Claudio Salvagni, l’avvocato difensore di Bossetti, e Luca «Poirot» Telese, sempre così sicuro delle sue affermazioni: «Credo che a un certo punto, come una catarsi, per il pubblico, per il Paese e per le istituzioni, servisse un punto, servisse la parola fine. A un certo punto, il colpevole era necessario».

Come se non bastassero le ore di televisione sul caso, dove ritroviamo tutti i protagonisti del «circo mediatico», l’avvocato Salvagni lamenta anche la mancata presenza delle telecamere al processo: «Ci sarebbero volute le telecamere, perché la gente avrebbe dovuto sapere quello che c’è là dentro».
Il dubbio è l’ombra della verità, giusto alimentarlo in continuazione, anche se rimane una grande incertezza: i processi si fanno in Tribunale o in Televisione?