Il problema di Schlein e’ l’ala radicale che si professa anticapitalista e non sostiene la causa ucraina

Il fattore K per ora sta scivolando sulla sinistra italiana come l’acqua sulla pietra. Sarà colpa del caldo torrido. Il Partito democratico si dà da fare sul referendum sull’autonomia differenziata e organizza le Feste dell’Unità dove si respira un clima nuovo, moderatamente ottimista. Elly Schlein ha catturato Giuseppe Conte nella sua rete e attirato nella medesima rete Matteo Renzi. Non male. Ma del fattore K – che non è il kommunism ma Kamala Harris – nessuna traccia. L’entusiasmo che improvvisamente si è riacceso tra i democratici americani non ha minimamente contagiato i democratici italiani. Non risultano agli atti riflessioni particolari o discussioni sulla Grande Novità Americana che può spegnere l’interruttore trumpiano che fino a venti giorni fa brillava sul mondo.

Nel provincialismo del dibattito italiano fa più rumore la polemica procedurale (congresso sì o no?) dentro Italia Viva che non una riflessione aggiornata a quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, e forse Matteo Renzi avrebbe più voglia di parlare di questo, e magari anche Luigi Marattin e Carlo Calenda. Ecco uno spunto per un bel dibattito estivo per i leader dell’opposizione. Anche gli scritti più impegnati, come quello di Michele Salvati pubblicato ieri dal Foglio, non considerano il fattore K come potenzialmente determinante per il futuro del progressismo mondiale.

In una riunione che si è tenuta a Fiano Romano di amici di Goffredo Bettini, quest’ultimo ha posto l’esigenza di dar vita a «un’area di pensiero» (ovviamente da non chiamare «corrente») della sinistra interna del Partito democratico «larga, popolare, innovativa e con solide radici. Intrecciata alle domande che giungono dal mondo cattolico e cristiano», di cui non è difficile immaginare l’afflato “pacifista” declinato in senso anticapitalista e antiatlantista.

Dalle parti della sinistra del Partito democratico questo è un orientamento abbastanza radicato. Confina con il “pacifismo” di Conte e del Fatto, che nella vittoria di Donald Trump vede la premessa per riportare la “pace” in Ucraina (svendendola, s’intende).

Qualche tempo fa gli iscritti di un circolo del Partito democratico a Roma rimasero esterrefatti davanti a un intervento violentemente anti-Zelensky pronunciato dal presidente della Fondazione Gramsci, il professor Giuseppe Vacca, negli anni molto vicino a Massimo D’Alema. Joe Biden non era amato da tutti, tra i dem nostrani. Evidentemente nemmeno Harris. D’altra parte, con la bella eccezione della iniziativa di Lia Quartapelle e Filippo Sensi, “benedetta” da Paolo Gentiloni (l’instant book “La Quarta Via – Il Changed Labour”), nemmeno sulla vittoria di Keir Starmer il Partito democratico ha prodotto chissà che.

Per non parlare della sinistra radicale o di un giornale come il Manifesto, pronti a diffidare dei successi, reali o potenziali, dei riformisti. Il quotidiano comunista anzi ha molto lavorato per sminuire la forza della vittoria dei laburisti. Eppure Elly Schlein è culturalmente “americana”, ma forse più della sinistra liberal (venne accostata ad Alexandria Ocasio-Cortez più che a Harris), ovviamente ha salutato subito la scesa in campo della vice di Biden, ed è vero che manderà Peppe Provenzano alla Convention di Chicago ad agosto. Ma forse poteva andare lei: avrebbero potuto incontrarsi, le due leader.

È ovvio che Schlein ha tutto da guadagnare dalla rimonta, e non parliamo poi di una vittoria, di Kamala. Perché allora questa non diciamo freddezza ma scarsa attenzione a un fenomeno che davvero può cambiare il mondo? È probabile che la sconfitta di Donald Trump non venga ritenuta possibile, quindi meglio non sbracciarsi a fare il tifo. Metti però che vince, allora tutti “kamaliani”. Ma per ora il “fattore K” è acqua fresca.