Christian Rocca/Dopo la débâcle europea, la fissazione terzopolista è peggio della malattia

Linkiesta per cinque anni ha sostenuto quotidianamente la necessità di un’alleanza contro gli stronzi di destra e di sinistra, l’urgenza di far nascere un fronte politico contro il bipopulismo perfetto italiano, il bisogno di mettere temporaneamente da parte le differenze ideologiche su questo o quell’argomento importante, anche importantissimo, ma mai quanto la salvaguardia dello stato di diritto, della democrazia e dei principi fondamentali della convivenza civile.

Prima c’era, e c’è, da salvare la Repubblica, l’Europa, l’America e il mondo libero dalle forze eversive e autoritarie interne ed esterne al sistema, e poi, una volta messa in sicurezza la casa comune, arrivato il momento di occuparsi di tutto il resto, e tornerei a dividerci tra persone serie, idee diverse e ricette contrapposte.

Così mentre tutti sbavavano per il segnaposto scelto dalla Casaleggio Associati, prima quelli di destra e poi quelli di sinistra, e ahimè anche qualche sedicente liberale, dalla fine del 2019 Linkiesta ha ricordato ogni santo giorno quanto fosse pericoloso per la Costituzione, per l’economia e per la salute affidare il paese a un azzimato avvocato di Volturara Appula che amicheggiava con Trump, faceva sfilare l’esercito di Putin sull’Autostrada del Sole, consegnava le infrastrutture italiane alla Cina e sognava di governare come nel Venezuela di Maduro.

Avevamo anche indicato un antidoto semplice semplice, ma efficace, per evitare il rischio autoritario prossimo venturo, ovvero tornare alla legge elettorale proporzionale del 1948, quando siamo usciti dal Fascismo, in modo da attenuare qualsiasi eventuale ma incipiente sbandata populista e radicale.

Nessuno dei cosiddetti democratici e liberali, allora, ci è venuto dietro, anzi si sono ancora di più infervorati a promuovere ulteriori sistemi maggioritari ed elezioni dirette come quei crash test che sui social certificano gli effetti dello scontro frontale di un’auto lanciata a tutta velocità contro un muro.

Quando gli eversori hanno mutilato il Parlamento con la riduzione del numero dei deputati e dei senatori, gli sono andati quasi tutti dietro e al referendum del 2020 è finita 70 per cento a favore della furia populista contro la politica, e 30 per cento contro. Anche lì, Linkiesta è stato l’unico giornale a perorare le ragioni del No. Non volevano nemmeno Mario Draghi, l’uomo che ci ha fisicamente salvati, perché Conte non andava toccato nemmeno con un fiore, tanto era prezioso, li mortacci loro.

Il fronte repubblicano contro il bipopulismo quindi non s’e fatto, per responsabilità principale del Partito democratico che da Zingaretti in poi ha pensato bene di fare, al contrario, un’alleanza strategica e fortissima con gli stronzi.

Di conseguenza, un gruppo di liberali e di democratici ha provato a far nascere un soggetto politico distante dai due opposti ma uguali populismi. È stata una faticaccia, perché non voleva farlo nessuno. Ricordo le difficoltà di far nascere una lista riformista alle amministrative di Milano, città stronzi-free per eccellenza, in particolare alimentate dal fronte locale dei partiti di Calenda e di Bonino. Alla fine la lista riformisti per Milano si fece, naturalmente all’interno dell’alleanza progressista per Beppe Sala. Meno complesso è stato invece il processo che ha portato alla candidatura, e al venti per cento, di Carlo Calenda a Roma.

Sulla scia di quei primi risultati, e della continua accelerazione della macchina Pd verso il muro di cemento armato, alle elezioni del 2022 è nato, con altrettanta fatica, il Terzo Polo di Renzi e Calenda a guida di quest’ultimo, dopo un paio di giri di valzer di Calenda e il no deciso di Bonino.

Due mesi dopo, il Terzo Polo prese quasi l’otto per cento alle elezioni politiche del 2022, un risultato straordinario considerata la polarizzazione destra-sinistra dell’Italia, voluta in campagna elettorale da Giorgia Meloni e ancor di più da Enrico Letta (una scelta suicida, questa di Letta, considerati i veti che ha posto all’ingresso dei centristi e pure dei populisti nella coalizione frontista, allargata a uno che si chiamava Di Maio, non so se ve lo ricordate).

Subito dopo quell’ottimo risultato c’è stata una battuta d’arresto, intanto il flop lombardo della candidata presidente Letizia Moratti, a dimostrazione che la via centrale non funziona, ma soprattuto c’è stata un’inerzia autodistruttiva che ha portato i capi dell’area, anziché a costruire un progetto serio su una base che stava già all’otto per cento, a ricominciare invece a smontare i pezzi faticosamente messi insieme fin lì. Imprudenza, imperizia, follia? Vai a sapere.

Alle Europee, Renzi e Calenda sono andati separati perché Renzi ha aderito all’appello di Bonino di fare una lista comune di scopo, e Calenda no. Una scelta incomprensibile, visto il risultato finale, e anche tecnicamente inutile perché gli eventuali eletti sarebbero confluiti nello stesso gruppo parlamentare di Renew, quello che mette insieme tutti i liberal-democratici europei, ma non quelli italiani, rimasti a casa grazie all’impoliticità di Azione.

Il patatrac del 9 giugno ha messo un punto definitivo sulla questione. Il giorno dopo le elezioni europee e la disfatta dei partiti né di qua né di là ho scritto su Linkiesta che il risultato certificava la chiusura dello spazio politico per una forza centrista liberale, non solo perché gli elettori avevano deciso di bocciare l’insensata corsa separata voluta da Calenda, ma soprattutto perché «le Europee con la legge proporzionale, e senza l’effetto bipolare dei collegi uninominali, erano l’unica e l’ultima occasione per dimostrare la vitalità di quest’area, per poi decidere alle prossime politiche se stare con i progressisti o con i conservatori (ovviamente meglio con i primi, ma vai a sapere)».

Sprecata miserabilmente l’occasione di far contare un’area né di qua né di là, nelle condizioni date dalla politica e dalla legge elettorale nazionale non ha più senso riproporre lo stesso schema terzista, anche con leader diversi da Renzi e Calenda, che peraltro non ci sono.

Seguo con attenzione l’iniziativa del bravo e coraggioso deputato Luigi Marattin di perseverare su questa strada, assieme a duecento e rotti dirigenti di Italia viva e ad alcuni rigorosi intellettuali liberali, ma la considero pericolosamente ingenua e profondamente velleitaria dopo la débâcle alle Europee e in vista di elezioni politiche del 2026, o quando sarà, in cui si voterà con collegi uninominali e coalizioni elettorali. Un’iniziativa che probabilmente è anche sbagliata di fronte all’incipiente autoritarismo meloniano che potrebbe addirittura liberarsi dei camuffamenti posticci di questi primi due anni se a novembre Trump dovesse vincere le elezioni americane.

L’esempio francese di un Nuovo fronte popolare più la desistenza di un partito del 20 per cento che conta il presidente dovrebbe far capire anche da noi che oggi l’obiettivo principale è quello di fermare i nuovi fascisti che vogliono cambiare i connotati all’occidente, e sì, poi anche quello di non far governare la sinistra radicale. Una lezione, quella francese, che dovrebbe valere non solo per i decaduti centristi ex Terzo Polo, ma anche per il Pd, che tranne rare eccezioni (Pina Picierno, Lia Quartapelle, Filippo Sensi in primis) peraltro fatica pure a entusiasmarsi per la vittoria di Keir Starmer in Gran Bretagna e per le rinnovate speranze alimentate da Kamala Harris.

La priorità oggi è fermare gli eversori e gli autoritari, è stata provata l’alternativa di una terza forza, e certamente uno spazio liberale e democratico parallelo sarebbe stato possibile se i leader dell’area non avessero mandato tutto a catafascio. Avendo sprecato l’occasione, ritentare è una fissazione che come tale è piu grave della malattia che si pretende di sconfiggere. È andata così, nel breve non c’è altra strada che quella di provare a costruire, giocando di sponda con gli apatici riformisti del Pd, una forte gamba liberal-democratica, sempre quella che si è cercato di far nascere fuori dai due poli prima di averla fatta fallire, con gli stessi temi e le stesse idee di prima ma dentro il centro sinistra, per fermare la destra dei colonnelli, e per contrastare, poi magari bilanciare e infine anche sostituire l’ala radicale e populista della coalizione progressista.

Mi rendo conto che si tratta di un progetto altamente acrobatico, ma non ci sono alternative a disposizione di fronte a un quadro politico anche internazionale che non permette più giochetti adolescenziali. Matteo Renzi in un primo momento aveva proposto di superare la sconfitta europea riproponendo «un Terzo polo con un terzo nome», cioè né lui né Calenda, da individuare come leader, ma poi si è reso conto, anche per la continua indisponibilità di Calenda, della velleità del progetto.

Carlo Calenda, invece, il giorno dopo il voto europeo avrebbe voluto tornare a sinistra, almeno così hanno raccontato le cronache, salvo ribadire nelle ore successive la strada della forza autonoma dai due poli, una strategia che ha già cancellato i liberal democratici dall’Europa e che difficilmente riuscirà ad avere esiti diversi in Italia. Auguri, e spero che Marattin e gli altri mi facciano ricredere.

Intanto bisogna guardare avanti, non più indietro, e trovare una nuova leadership d’area come hanno fatto brillantemente i liberal americani, non solo con Kamala Harris, ma anche con Josh Shapiro, Gretchen Whitmer e Pete Buttigieg, perché da noi come negli Stati Uniti e in Francia, in Ucraina e in tutta Europa, la precedenza va alla premura di fermare politicamente l’ondata nazional-populista e autoritaria.