Fervono le discussioni, in tutto il mondo e anche in Italia, sullo strapotere acquisito dalle cosiddette aziende Big Tech e sui pericoli che esso pone alla stessa democrazia nei paesi occidentali. Le vicende elettorali negli Stati Uniti rinfocolano le polemiche, alla luce di notizie secondo cui un numero crescente di tycoon della Silicon Valley sosterrebbe Trump, o si appresterebbe a sostenerlo. Si fronteggiano anche in questo caso uno schieramento di destra e uno di sinistra: il primo sostiene che lo sviluppo economico viaggia sull’onda di una costante innovazione tecnologica, che solo imprenditori privati possono assicurarla, che nessun freno va posto ai loro “spiriti animali”, che l’affermarsi di monopolî è semplicemente il riproporsi della vecchia legge umana del più forte che mangia il più debole, che se i monopolî privati sono gli unici in grado di dare benessere alla nazione li si lasci indisturbati; il secondo afferma che il miglior propellente dello sviluppo è invece la concorrenza, anche perché quest’ultima favorisce i ceti meno abbienti e moderare le disuguaglianze sociali promuove la crescita economica, come una vasta letteratura empirica dimostra.
Notiamo di passata come considerare la concorrenza un tema di sinistra fosse considerato, in Italia fino a qualche anno fa, una bestemmia dagli ultimi epigoni del marxismo-leninismo che ancora popolavano nel nostro paese partiti e sindacati di sinistra. Ma una rivoluzione culturale era alle porte, due insigni economisti italiani scrissero un pamphlet provocatorio intitolato “Il liberismo è di sinistra” (Alesina e Giavazzi, Il Saggiatore, 2007) e pian piano si fece strada l’idea che un moderno partito socialdemocratico dovesse innalzare la bandiera del mercato regolato e di politiche antimonopolistiche.
Un altro modo di porre la stessa questione consiste nel domandarsi: è meglio avere in un paese una molteplicità di medie e piccole aziende, che la concorrenza indurrà a tenere i prezzi bassi a beneficio ultimo dei consumatori, oppure poche grandi aziende quasi monopolistiche che diano lustro e benessere al territorio in cui sono basate? Ma è una domanda troppo generica per ricevere una risposta precisa. Occorre quanto meno specificare il settore produttivo: coltivazione di arance, gestione di supermercati, progettazione di smartphones? Per essere ancora più accurati, occorre chiarire il livello e la natura delle tecniche occorrenti a produrre quel certo bene: quanto sofisticate, quanto bisognose di innovazioni continue, quanto acquistabili sul mercato o invece da creare necessariamente in casa. Perché la tecnologia è l’anima di qualunque bene tangibile o servizio intangibile venga offerto nel tempo moderno: anche il più antico e tradizionale (come un’arancia o un servizio di distribuzione al dettaglio, per stare all’esempio precedente) richiede tecniche di coltivazione, fabbricazione, distribuzione, organizzazione che possono essere molto raffinate e cangianti.
Dunque quelli che ho chiamato, semplificandoli ai limiti della caricatura, schieramenti di destra e di sinistra hanno entrambi in parte ragione. È vero che lo sviluppo economico lo fanno le imprese e gli imprenditori, trovando incessanti applicazioni delle tecnologie nuove ai loro prodotti e processi produttivi, ma è altrettanto vero che la società che li ospita, se trae beneficio dalla crescita di tutta l’economia, trae un beneficio ancora più grande da un livello generale dei prezzi tenuto basso da dinamiche concorrenziali opportunamente alimentate da regole e politiche pubbliche, nonché da un’accorta redistribuzione del reddito. È noto come la concorrenza non sia uno stato di natura, ma una costruzione umana molto recente e fragile, bisognosa di cure continue. Lo stato di natura è il monopolio, appunto; per citare gli immortali ABBA, “the winner takes it all”.
C’è, come dicono gli economisti, un trade off, un conflitto fra obiettivi entrambi meritevoli: spiriti animali e concorrenza. Occorre trovare il giusto equilibrio. Come? Un modo è intervenire sulla trasmissione fra scienza e tecnologia. La scienza produce scoperte, normalmente slegate da scopi pratici. La tecnologia trasforma alcune di quelle scoperte in protocolli immediatamente utili. La scienza ha le porte aperte, le scoperte degli scienziati vengono pubblicate sulle riviste specializzate e sono a disposizione di tutti, vengono dibattute liberamente nei convegni e sottoposte alle critiche di altri scienziati. Fruttano ai loro autori soltanto fama. La gran parte degli scienziati lavora nelle università e il loro lavoro è prevalentemente a carico del bilancio pubblico. La scienza è quindi, come si dice in linguaggio economico, un bene pubblico. La tecnologia tende invece ad avere le porte chiuse, usa una scoperta scientifica per tramutarla in una procedura produttiva giuridicamente protetta, quindi rende il pubblico privato e serve gli interessi di un singolo anziché della collettività. I tecnologi lavorano prevalentemente in laboratori privati. Le Big Tech ne fanno incetta e basano su di loro la propria potenza.
E se la tecnologia divenisse un po’ più pubblica, come la scienza da cui promana? Ad esempio con la creazione o il rafforzamento di agenzie sovranazionali che in parte controbilancino i giganti privati (Massimo Florio, La privatizzazione della conoscenza, Laterza 2021)? È un’idea, altre possono essere avanzate. Di certo, la vecchia contrapposizione fra Stato e Mercato resta centrale e in questa fase storica una lieve rivincita dello Stato nel campo dei servizi tecnologici sembra opportuna.