(da Repubblica) Normalmente le recessioni hanno un effetto ritardato sul mercato del lavoro. Questa crisi, invece, ha avuto un impatto immediato. Lo confermano i dati sulle ore di Cassa integrazione ordinaria di aprile: 25 per cento più che nell’intero 2009. E mancano all’appello ancora le piccole imprese che faticano ad accedere alla Cassa in deroga. Per fortuna il decreto Rilancio cerca di velocizzarne le procedure, tagliando fuori le Regioni, anche se rimane il doppio passaggio – prima autorizzazione, poi elenco lavoratori coinvolti – che allunga i tempi. L’Inps potrà anticipare subito il 40 per cento della prestazione, ma ci vorrà un mese prima che le nuove procedure vengano attivate.
Un secondo aspetto positivo del decreto è la regolarizzazione degli immigrati, indispensabile per riprendere il controllo del territorio, ridurre il rischio di focolai infettivi legati alla clandestinità e contribuire a gestire picchi di domanda di lavoro. Riguarda però solo un terzo delle persone presenti in modo irregolare in Italia. Positivo anche lo stanziamento di fondi per la sanità, anche se tutto dipenderà da come verranno effettivamente spesi.
Purtroppo però il decreto va ben oltre, e finisce in un vero e proprio assalto alla diligenza incontrollato. Del resto, quando un decreto è lungo 315 pagine, con 266 articoli e 99 decreti attuativi, si sa già che ci finirà dentro di tutto. Da solo il decreto aggiunge 55 miliardi di disavanzo, il 3 per cento del Pil, come le ultime tre finanziarie messe insieme. Di fatto ci siamo già mangiati i soldi che (forse) ci arriveranno dal Recovery Fund europeo.
Un terzo del decreto finanzia ammortizzatori sociali categoriali: altri cinque bonus (per lavoratori intermittenti, stagionali non del turismo, lavoratori dello spettacolo, venditori porta a porta e badanti) che si aggiungono ai cinque pre-esistenti. Per ogni categoria che viene coperta, inevitabilmente ce ne sono dieci che si sentono “ingiustamente” escluse: ad esempio i liberi professionisti (architetti, ingegneri, avvocati e commercialisti in primis), sono già sul piede di guerra. Viene, sì, istituito uno strumento universale per chi è rimasto escluso dalle altre misure – il reddito di emergenza – ma di fatto è un doppione del reddito di cittadinanza, di cui eredita appieno la complessità gestionale e i ritardi.
Se era difficile essere selettivi e rapidi all’inizio dell’emergenza, adesso bisognava aiutare solo chi ha sofferto di più. Due terzi delle famiglie italiane dichiarano di non avere subìto riduzioni del proprio reddito durante il lockdown. Le risorse andavano perciò concentrate su quel terzo di popolazione colpito. Che senso ha, ad esempio, il famoso bonus biciclette di 500 euro, dato anche ai milionari purché residenti in Comuni con più di 50.000 abitanti?
E così assistiamo a una lunga lista di prebende offerte a diverse categorie o centri di potere, economici, locali e ministeriali. Tanti piccoli interventi inutili, tra cui 50 milioni per acquistare quote di fondi che investano in attività turistico-ricettive; 20 milioni per l’ennesima campagna di promozione del turismo in Italia; 10 milioni per l’ennesima piattaforma digitale per la fruizione del patrimonio culturale; 100 milioni per il terzo settore di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia – esattamente le regioni meno colpite dal Covid; altrettanti per la vendemmia 2020 (!).
Non mancano gli interventi cervellotici, come i 50 milioni per il credito d’imposta in ricerca e sviluppo al Sud aumenta “dal 12 al 25 per cento per le grandi imprese che occupano almeno 250 persone, il cui fatturato annuo è superiore a 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio è almeno pari a 43 milioni di euro”, e questo è solo l’inizio dell’articolo.
In teoria sono tutte misure una tantum, ma sarà molto difficile porre termine a queste concessioni fatte a categorie ben rappresentate in Parlamento. Si prenda il taglio dell’Irap per il saldo 2019 e l’acconto 2020: 4 miliardi dati a tutte le imprese, anche a quelle che in questi mesi hanno aumentato il loro fatturato. Una percezione diffusa tra gli iscritti a Confindustria è che il primo risultato della presidenza Bonomi sia l’abolizione permanente dell’Irap.
C’è poi l’articolo 202, inserito quasi di soppiatto ma importantissimo: 3 miliardi per nazionalizzare definitivamente Alitalia, beninteso senza mai menzionarla, dandole poteri immensi. Ma non sarà l’unico caso in cui il decreto fa entrare lo Stato nel capitale di rischio delle imprese, nessuno sa secondo quali criteri o logica. Anche i 6 miliardi di contributi a fondo perduto alle imprese possono essere destinati a ricapitalizzazioni, mentre i 5 miliardi assegnati agli enti locali si accompagnano a norme (articoli da 54 a 61) che permettono loro di attuare a livello locale vere e proprie operazioni di salvataggio e di politica industriale.
Infine il decreto abolisce le famigerate clausole di salvaguardia: l’aumento automatico dell’Iva futura che ogni governo inseriva per far digerire all’Europa lo sforamento dei limiti del disavanzo. Una morte annunciata e ingloriosa per un escamotage in cui non ha mai creduto nessuno, men che meno chi le proponeva ogni anno.