ALBERTO MINGARDI/PER CAPIRE LA QUESTIONE AUTOSTRADE

“La questione Autostrade va risolta subito”. Pare l’abbiano detto sia il premier Conte, sia il capo del Pd Zingaretti. Chiedersi di quale questione Autostrade si stia parlando non è irrilevante.

C’è una vicenda tragica, scolpita nella nostra memoria. Il crollo del ponte Morandi il 14 agosto 2018 causò la morte di 43 persone. Le indagini per accertare le responsabilità sono ancora in corso. La società Autostrade rispose con scarsa empatia, per usare un eufemismo, alla tragedia di Genova, mettendo poi sul piatto 50 milioni per i familiari delle vittime. Il governo, stesso primo ministro di oggi ma diversa maggioranza, fece della revoca della concessione ad Aspi una bandiera. L’azienda privata che vive di pedaggi difficilmente raccoglie le simpatie dell’opinione pubblica. E tuttavia è difficile sostenere che a Genova abbia fallito solo il sistema di controlli in capo ad Aspi. E’ stato più volte notato come il contratto di concessione preveda che il concedente vigili “affinché i lavori di adeguamento sulle autostrade siano eseguiti a perfetta regola d’arte”.

La vigilanza statale
Non solo. Per circa vent’anni i contratti fra Stato e concessionari non sono stati resi pubblici, finendo così per rappresentare “un’area grigia nei rapporti concessori, caratterizzati da incertezza giuridica ed economica” (Corte dei Conti). La stessa Autorità dei Trasporti (istituita nel 2011) ha lamentato la difficoltà di accesso a “dati gestionali detenuti dal Ministero delle infrastrutture”. Le concessioni, anziché essere rimesse a gara come prevedrebbe la disciplina europea, sono state “prorogate”, rendendo così più difficile maturare un giudizio sull’efficienza dei diversi operatori.

Insomma, lo Stato non ha saputo vigilare e neppure mantenere un contesto regolamentare ben oliato. In compenso, pare si consideri destinato a essere un gestore impeccabile.

Questa è l’altra “questione Autostrade”, che dal crollo del viadotto Polcevera prende le mosse ma non riguarda né quella vicenda in sé né la sicurezza stradale in generale. Riguarda invece lo Stato di diritto e la facilità con cui può essere piegato ai bisogni della politica e del suo racconto.

Responsabilità e proprietà
Se ci sono stati errori o peggio nella manutenzione del Ponte Morandi, questi ultimi sono in capo ad Aspi: la società che quel ponte lo gestiva. Aspi è controllata da Atlantia, una holding che, in undici Paesi del mondo, si occupa di 14 mila chilometri di strade a pedaggio. I Benetton, col 30%, sono gli azionisti di riferimento. Al restante 70% del capitale è stata la risparmiata la visibilità riservata alla famiglia di Ponzano Veneto.

Si sono confusi intenzionalmente due piani: le responsabilità dell’azienda e la proprietà dell’azienda stessa. Se Autostrade è inadempiente rispetto al suo contratto, ci sono elementi per rescinderlo. In punto di logica, ciò dovrebbe portare a una nuova gara, per identificare un gestore migliore. Non si capisce che c’entri la composizione azionaria di Atlantia. Cambiare l’azionista della controllante non significa cambiare tutte le figure professionali che assumono nella controllata decisioni rilevanti come quelle prese o non prese col Ponte Morandi. Né vuol dire di per sé cambiare prassi operative o modello organizzativo. E nemmeno equivale a più investimenti: obiettivo che il governo potrebbe garantirsi, in tutta trasparenza, rimettendo la concessione a gara.

La concessione
E allora perché la “questione” è diventata uno scontro per il controllo di Atlantia?

In parte per sciatteria e in parte per ideologia. La sciatteria è quella di chi, nel turbinio dell’informazione a getto continuo, confonde azienda e azionista e trova più comodo accanirsi su quest’ultimo per ragioni di comunicazione. L’ideologia è quella per cui i diritti di proprietà sono qualcosa che lo Stato può “dare” o “ridare” quando e come gli garba.

Le autostrade sono dello Stato che chiede ad altri di occuparsene in sua vece. Ma lo fa attraverso una concessione che definisce obblighi e diritti sia per il concessionario che per il concedente. Quest’ultimo può sbarazzarsi del primo, ma deve dimostrare che è venuto meno ai suoi doveri. Lo deve fare seguendo procedure che sono l’infrastruttura giuridica di un’economia moderna ma sono ancora più necessarie quando una controparte ha il potere di cambiare le regole del gioco a suo piacimento.

A non essere dello Stato invece è Atlantia. Se lo Stato imprenditore o una delle sue emanazioni (Cdp, F2I, eccetera) ritiene che si tratti di un buon investimento, può sicuramente cercare di acquisirla: ma dovrebbe farlo alle stesse condizioni di un acquirente privato.

Nei mesi scorsi, invece, con l’articolo 35 del Milleproroghe, il governo ha modificato unilateralmente il contratto, eliminando di fatto le penali che spettavano al concessionario in caso di revoca. Ciò ha messo la società in una condizione di grande debolezza e le ha reso più difficile finanziarsi sul mercato. A pensar male si direbbe che come potenziale acquirente si è apparecchiato le condizioni più favorevoli.

Secondo l’International Property Rights Index, siamo il penultimo Paese nell’Europa occidentale per tutela dei diritti di proprietà (l’ultimo è sempre la provvidenziale Grecia). E’ un problema che va dalla disciplina degli sfratti alle grandi partite dell’economia, su cui la classe politica vuol dire la sua. “Rispetto dei diritti di proprietà” è espressione ampia, ma certamente ne fa parte il non usare le norme per modificare gli assetti proprietari delle imprese. Altrimenti il passo dallo Stato di diritto alle offerte che non si possono rifiutare può essere breve.

da L’Economia del Corriere della Sera, 29 giugno 2020