(da Il Messaggero 1 agosto) A dispetto dei raduni negazionisti, ultimo in ordine di tempo quello avvenuto in Senato pochi giorni fa, sono sempre meno numerose le persone che credono che l’epidemia sia un ricordo del passato, e che la situazione sia “sotto controllo”. E hanno perfettamente ragione. La curva dei contagi ha dato segni di peggioramento già a metà giugno, e settimana dopo settimana continua a darne, come da un po’ di tempo riconoscono le stesse autorità sanitarie, preoccupate che – all’improvviso – la situazione possa sfuggire di mano. Né le cose vanno meglio sul fronte ospedaliero, dove, quatti i quatti, da una settimana gli ingressi di nuovi pazienti sono tornati a superare il numero dei morti e dei dimessi.
La ragione per cui le cose non sono ancora precipitate non è, però, il buon comportamento degli italiani. La ragione vera, a mio parere, è che, in questo momento, mancano i tre propellenti fondamentali della diffusione del virus: la stagione fredda (con il suo corredo di nebbia, umidità e smog), la vita al chiuso, ma soprattutto una base di soggetti contagiosi sufficientemente ampia. Ho provato a fare una stima del numero di soggetti contagiosi nel mese di luglio e a confrontarla con quella di fine febbraio, quando l’epidemia partì senza che nessuno si fosse accorto di quel che stava accadendo. Ebbene, il confronto è impressionante: il numero di persone contagiose era, allora, circa 100 volte quello attuale (se volete gli ordini di grandezza: circa 20 mila persone a luglio, circa 2 milioni di persone a fine febbraio).
In concreto, questo significa che a febbraio, in media, incontravamo una persona contagiosa ogni 30, oggi ne incontriamo una ogni 3000. E’ questo, innanzitutto, che ci protegge, non la nostra autodisciplina.
Ma se questa, a grandi linee, è la situazione, allora il problema è di evitare che si ripeta quel che avvenne allora: e cioè che il virus circoli a lungo sottotraccia, senza che ci accorgiamo che il numero di contagiati sta crescendo vertiginosamente, salvo poi – d’improvviso – ritrovarci con gli ospedali ingorgati e le terapie intensive piene. E’ questo lo scenario verso cui ci stiamo avviando?
Per certi versi no, perché i sistemi di allerta sono oggi molto più funzionanti di 6 mesi fa, e quasi sicuramente – se le cose dovessero volgere al peggio – ce ne accorgeremmo intorno a quota 100 o 200 mila, non intorno a quota 1 o 2 milioni di infetti. Ma il punto è che sarebbe comunque troppo tardi, perché una base di 200 mila persone contagiose, in regime di relativo rilassamento, ci mette pochissimo a propagarsi e moltiplicarsi, rendendo la situazione di nuovo incontrollabile.
La domanda quindi diventa un’altra: stiamo facendo tutto il possibile per evitare che la situazione sfugga di mano?
Qui la risposta è risolutamente no. Non solo non stiamo facendo quel che occorrerebbe per limitare i rischi, ma stiamo ripetendo alcuni degli errori che abbiamo già commesso a febbraio, all’inizio dell’epidemia.
Allora commettemmo due errori fatali, che costarono migliaia di morti in più.
Il primo fu di minimizzare la gravità della situazione, e mettere il freno ai tamponi, per non danneggiare il turismo. Ve lo ricordate Luigi Di Maio che, in piena emergenza sanitaria, dichiara che “l’Italia è un paese sicuro”, e che il problema riguarda solo lo 0.1% dei comuni italiani? E Walter Ricciardi, fresco di nomina a consigliere del ministro della sanità, che critica il Veneto per i troppi tamponi, e pare preoccuparsi solo dell’immagine dell’Italia all’estero?
Il secondo errore fu di non bloccare i voli indiretti dalla Cina, e persino di incoraggiare i contatti con la comunità cinese (scuole e ristoranti), il tutto in ossequio al sacro terrore di apparire razzisti, discriminatori, o politicamente scorretti.
Ebbene oggi stiamo ripetendo, pari pari, quei due medesimi errori. Per salvare la stagione turistica, abbiamo riaperto i voli alla maggior parte dei paesi ricchi, compresi quelli più pericolosi non solo e non tanto per la diffusione del virus ma per la massa di persone intenzionate a trascorrere le vacanze in Italia. Avessimo tenuto conto del potenziale di ingressi di persone contagiose di ogni paese, avremmo dovuto mettere al primo posto della black list gli Stati Uniti, ma anche Regno Unito, Svizzera, Francia, Germania, Russia, Belgio, Israele, solo per citare alcuni dei paesi per noi più pericolosi.
E poi c’è il secondo, clamoroso, errore: gestire un’epidemia, ossia un problema sanitario, facendosi guidare dalle preoccupazioni ideologiche anziché dell’imperativo di tutelare la salute dei cittadini. Lo abbiamo commesso con la Cina a febbraio, lo ripetiamo oggi con i migranti in generale, e con gli sbarchi dall’Africa in particolare.
Non voglio qui ricordare, uno per uno, i focolai che negli ultimi 30 giorni sono scoppiati in varie comunità straniere, né riportare una per una le cifre, impressionati, della percentuale di positivi fra i migranti sbarcati dall’Africa. Mi limito a un’osservazione statistica: abbiamo (giustamente) introdotto l’obbligo di quarantena per gli ingressi dalla Romania, il cui numero di infetti è 15 volte quello dell’Italia, ma sembriamo ignorare che la percentuale media di positivi fra gli sbarcati (nei casi in cui sono stati effettuati e comunicati i risultati dei test), è del 19.1%, tra 50 e 100 volte quella di chi proviene dalla Romania. Per non parlare della politica verso la Tunisia, arditamente inclusa fra i paesi extra-Ue ed extra-Schengen da cui si può arrivare senza troppi vincoli, pur sapendo che è il paese che più di tutti alimenta gli sbarchi irregolari in Italia.
Ora che la frittata è fatta, il ministro dell’Interno Lamorgese dichiara “inaccettabili tutti questi sbarchi”, come se non vedesse il nesso fra la politica di apertura e di accoglienza fin da subito proclamata dal suo governo, e l’aumento degli sbarchi, quasi quadruplicati rispetto ai tempi di Salvini, e ora infinitamente più preoccupanti per i rischi sanitari che comportano.
Ma facciamocene una ragione. La priorità degli attuali governanti non è risolvere il problema dei flussi migratori, ma è marcare la discontinuità con il governo precedente, ripristinando la politica dell’accoglienza, cancellando i decreti sicurezza, mandando a processo chi li aveva concepiti. Che tutto ciò possa avere un prezzo, in termini di salute pubblica, di coesione sociale, se non di democrazia (come temeva Marco Minniti), a loro non sembra importare molto.
Speriamo solo che, a pagare il conto finale, non siano chiamati i cittadini italiani, quando l’epidemia dovesse rialzare la testa.