(giovanni cagnoli) Nel 2021 nasceranno circa 380mila nuovi italiani (solo dieci anni fa i nuovi nati ogni dodici mesi erano oltre 500mila). E i sessantenni che saranno toccati dalle regole pensionistiche sono circa 800mila l’anno. A parità di tasso di partecipazione al lavoro siamo di fronte a un’emergenza demografica senza precedenti. Ogni anno dei prossimi dieci usciranno dal mondo del lavoro circa 200mila persone più di quelle che ci entreranno, e per rimpiazzarle l’unica possibilità è l’immigrazione. L’impatto economico e sociale di questi numeri è impressionante. Solo per effetto demografico “sparirà” in dieci anni circa l’otto per cento del Pil, delle tasse, della possibilità di sostenere l’impatto delle pensioni di chi oggi ha tra 50 e 60 anni.
Le scelte
In questo contesto agevolare l’uscita anticipata dal mondo del lavoro significa esasperare un problema già gravissimo di suo. Tra l’altro, qualsiasi imprenditore del Nord sa già oggi che il vero problema nei prossimi cinque anni sarà il reperimento dei lavoratori. Ci sono posizioni scoperte che non trovano offerta di lavoro in molti settori, ed è del tutto comprensibile vista la dinamica demografica. Mancano 200mila giovani l’anno e l’incremento di produttività non è per nulla sufficiente a compensare.
Dal punto di vista del lavoratore, ci sono evidenze plurime di persone che vanno in pensione anticipata senza grande entusiasmo. Non tutti ovviamente, e certamente non quelli che hanno lavori davvero usuranti. Ma la grande parte dei colletti bianchi vede un allungamento della vita e soprattutto della qualità della vita che mal si concilia con venti o trenta anni di “pensione”. Molti vorrebbero restare nel mondo del lavoro, avendone possibilità, salute, e anche interesse professionale e personale. Insistere per anticipare la pensione a 62 anni è una scelta scellerata che, a parte i costi di sistema enormi, penalizza le persone, le aziende e il nostro sistema sociale.
Le possibilità alternative
In un mondo liberale si potrebbe benissimo lasciare l’opzione alle persone di andare in pensione anticipata, ma con una penalizzazione del trattamento che tiene conto dell’aspettativa di vita. Il calcolo è relativamente semplice da fare e, se la penalizzazione è adeguata, il costo per lo Stato è nullo. Laddove una persona scegliesse per sue ragioni personali questo anticipo, il costo non ricadrebbe sulla collettività.
Parallelamente, si potrebbe incentivare il lavoro dimezzando i contributi sociali pagati oltre i 60 anni e trasferendo il risparmio per le aziende in parti uguali tra lavoratore e azienda stessa. Questo favorirebbe la scelta (sempre libera e individuale) di restare più a lungo nel mondo del lavoro con un stipendio del 10-15 per cento circa più alto (la metà dei contributi non versati) e con un costo per lo Stato relativamente contenuto o anche nullo visto che si ritarda la pensione e si continuano a versare tasse e, seppure in misura ridotta, contributi.
L’impostazione è ovviamente antitetica rispetto alla retorica antica, e populista, dei sindacati. Lasciare libere le persone e le aziende con incentivi economici che sono finalizzati al bene della collettività è esattamente l’opposto di quanto i sindacati hanno fatto negli ultimi trent’anni, ingessando sempre più i comportamenti per difendere i privilegi degli anziani e anche di chi sceglie di non lavorare a scapito enorme delle nuove generazioni che saranno costrette a pagare un conto salatissimo per gli assurdi scempi che sono stati perpetrati.
Difficile quindi che passi una simile proposta rispettosa dei diritti dei giovani, rispettosa delle libere scelte individuali e soprattutto finalizzzata allo stimolo di una crescita economica di cui abbiamo assoluto bisogno.
(Boeri e Perotti) PRODUZIONE DI ECCEZIONI A MEZZO DI ECCEZIONI Complicazioni su complicazioni introdotte spesso all’ultimo momento. Una manna per i consulenti del lavoro; un disastro per chi, lavoratore o impresa, deve pianificare per tempo le uscite. Una giungla di regole in cui tutti si sentono trattati peggio degli altri.
Un unico filo conduttore lega le infinite riforme del nostro sistema pensionistico: prima si introducono norme a favore di alcune categorie, chiaramente insostenibili nel corso del tempo. Poi intervengono i calafati che cercano di tappare in qualche modo le falle più evidenti, istituendo regimi transitori che di fatto creano anch’essi nuove eccezioni.
Nel 1973 il governo Rumor concesse ai dipendenti pubblici di andare in pensione con 15 anni di contributi (ci sono casi di pensioni percepite raggiunti i 29 anni di età); la voragine che si aprì fu solo in parte tappata dal governo Amato nel 1992, nel mezzo di una crisi valutaria e del debito pubblico senza precedenti, con un innalzamento graduale dei requisiti contributivi minimi.
Per superare le pensioni d’anzianità istituite dal governo Moro nel 1965 (permettevano di andare in pensione con 35 anni di contributi a qualsiasi età) ci sono voluti quasi 50 anni e un’altra crisi del debito. Altre falle di grandezza minore sono state aperte da norme infilate di straforo in qualche Finanziaria per ingraziarsi categorie specifiche – dai militari ai postini, dai sindacalisti ai ferrovieri, dai piloti d’aereo ai dirigenti – in prossimità di qualche tornata elettorale. Anche nelle nove “salvaguardie” introdotte tra il 2011 e il 2020 si sono infilate eccezioni di ogni tipo.
Immancabilmente queste misure erano seguite da altre misure di tamponamento parziali. Per esempio le “finestre” di lunghezza variabile che ritardavano il pagamento della pensione a chi ne aveva diritto, e le “quote” che imponevano combinazioni di requisiti contributivi e anagrafici gradualmente crescenti a diverse generazioni di pensionandi. Il risultato è un’infinità di regimi pensionistici diversi: sono ben più degli 8 regimi di uscita paventati dal presidente di Confindustria Bonomi. Per accorgersene basta sfogliare la rubrica “A porte aperte” sul sito dell’Inps.
La storia più recente non si discosta da questa tradizione. Nel 2019 la famosa “quota 100” ha aperto l’ennesima falla permettendo di andare in pensione a 62 anni a tre generazioni (le classi 1957, 1958 e 1959) che avessero raggiunto almeno 38 anni di anzianità contributiva nei tre anni successivi. Per evitare un’uscita traumatica da “quota 100”, con uno scalone altissimo, cioè il ritorno all’età pensionabile minima di 67 anni, si sta ora pensando di innalzare il requisito anagrafico gradualmente, a 64 anni nel 2022 e a 66 nel 2023, mantenendo il requisito contributivo minimo di 38 anni, per poi passare nel 2024 al regime ordinario a 67 anni.
È importante però rendersi conto che questa misura riguarderebbe sempre solo le tre generazioni di Quota 100: chi è nato dal 1 gennaio 1960 in poi continuerà ad andare in pensione 5 anni più tardi di chi è nato un giorno prima, come prima di quota 100. Lo scalone verrà abbassato solo agli individui nati tra il 1957 e 1959 che alla fine di quest’anno non avevano ancora raggiunto 38 anni di contributi: 48.000 persone nel 2022 e 23.000 nel 2023. Quasi tutti uomini perché, come per quota 100, i requisiti contributivi elevati penalizzano le donne che hanno carriere contributive discontinue.
Molti pensano che anche la seconda misura di cui si parla in questi giorni, l’estensione della gamma di lavori considerati gravosi, sia un modo per ridurre lo scalone, sebbene come al solito al prezzo di introdurre nuove eccezioni alla regola. Ma in pratica non sarà così. La Commissione sui lavori gravosi insediata nel 2017 dopo 5 anni ha finalmente definito un elenco di 45 nuove categorie (tra i quali i taxisti, i dietisti, gli igienisti dentali e i tecnici dello shatsu) che dovrebbero d’ora in poi poter uscire a 63 anni con un trattamento fino a 1500 euro.
Secondo le stime dell’Inps meno di un migliaio di persone sarebbero però coinvolte in questo nuovo canale d’uscita. Perché? Dato che l’Inps non raccoglie informazioni sulle mansioni, deve ricorrere ad altre banche dati che coprono solo spezzoni di carriera lavorativa. Per beneficiare di questo canale d’uscita è quindi necessario un gravoso lavoro di raccolta di documentazione; quasi tutti i possibili beneficiari preferiscono farsi licenziare e accedere all’Ape Sociale attraverso lo stato di disoccupazione.
Insomma, anche se comprendiamo l’esigenza politica di uscire da Quota 100 “gradualmente”, le misure di cui si parla in questi giorni non risolvono il problema della insostenibilità della spesa pensionistica, riguardano una platea di beneficiari minima, e complicano ulteriormente il nostro sistema pensionistico. L’esperienza di quota 100 ci indica la strada per contenere la spesa agendo sugli incentivi con regole uguali per tutti.
Ci sono state molte meno uscite con quota 100 di quanto previsto inizialmente (ad oggi 360.000 rispetto a una platea potenziale di 800.000). La ragione è che tutte le pensioni hanno ormai una componente calcolata col metodo contributivo e su questa quota operano riduzioni (peraltro modeste) dell’importo dell’assegno per chi vuole andare in pensione prima.
Come già proposto su queste colonne basterebbe estendere queste correzioni alla componente retributiva. Sarebbe un modo di anticipare l’entrata in vigore di regole sull’età di pensionamento che fra 10 anni riguarderanno tutti i lavoratori. Niente più eccezioni; regole uguali per tutti e comprensibili: chi va in pensione prima percepirà la pensione per un periodo più lungo, è dunque assolutamente ragionevole che l’importo annuale venga decurtato di conseguenza.