La nostra vita scoperta nell’anima

C’è una frase che appena l’ho letta mi ha aperto la mente, l’ha scritta James Hillman (1926-2011) il geniale psicoanalista statunitense (ma europeo di cultura) allievo e successore di Carl Gustav Jung, nel suo libro “Il codice dell’anima” (1996, gli Adelphi).

“Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada” (pagina 19).

Nel libro si spiega la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta. Nelle arti si adopera molto il termine “vocazione”, a scuola si va in cerca di “talenti”, ma Hillman ci parla del daimon, un compagno unico e tipico che ci guida nel venire al mondo perchè già prima della nascita l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra.

La difficoltà consiste nel fatto che noi vivendo dimentichiamo tutto questo e crediamo di esser vuoti. È il daimon che ci ricorda il disegno prescelto, e dunque il nostro destino. Nessuna predestinazione: pur tra mille condizionamenti, ci autodeterminiamo; siamo solo spinti a diventare quello che siamo.

Hillman mi ha indotto a riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell’esistenza umana che presto o tardi si manifesta per la semplice ragione che non ci abbandona mai. Si tratta di allineare la nostra vita su questa scoperta ma, soprattutto, riuscire con il buon senso a capire che tutti gli eventi avversi che ogni esistenza comporta, compreso lutti,  malanni, l’invecchiamento e le trasformazioni del nostro corpo, “fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo”. Non è solo una spiegazione “psicanalitica” ma anche saggia il riuscire ad accettarsi in ogni fase della nostra vita, senza la necessità ed urgenza di correggere il nostro corpo, di correre ai ripari dinnanzi al doppio mento alle rughe o alla perdita di capelli?

In sostanza la vita è sempre intesa, da Hillman, come occasione per “coltivare la propria anima”, per realizzarne l’intrinseca potenzialità. Approfondendolo mi ha pure fornito risposte suggestive ad altre domande, la prima delle quali è stata: ma allora anche un terrorista o un cattivo non fa altro che seguire il suo daimon? Il terrorista secondo lui è il frutto marcio di una civiltà disumanizzata, imbruttita, in una parola senz’anima, in cui gli uomini eliminano altri uomini che non riconoscono più come simili.

Sono il risultato di un lunghissimo processo di cancellazione totale della psiche (v. Fuochi blu, 1996, pp. 269-270), “il prodotto di un sistema educativo il quale insegna che la fantasia non è reale, che l’estetica è materia per gli artisti e l’anima è materia per i preti; che l’immaginazione è una cosa banale o pericolosa e buona per i matti, e che la realtà, ciò a cui dobbiamo adattarci è il mondo esterno, e che quel mondo è privo di vita”.

La cosa più importante, se vogliamo recuperare l’anima perduta, sta nel ritrovare le nostre reazioni estetiche perdute, il nostro senso della bellezza. Se accanto al bene e al vero non vi fosse il bello, noi non li potremmo mai percepire, mai conoscere. Il tema della bellezza (che si lega all’estetizzazione e alla sensibilità) è un punto su cui Hillman insiste moltissimo. Anche la giustizia viene insieme alla bellezza, diventa condizione del suo darsi. Se guardiamo alla bruttezza delle nostre città o di certe zone degradate è facile capire che il barbaro, pur cresciuto in casa nostra, è quella parte di noi alla quale la città non parla, quell’anima in noi che non ha trovato una casa nel territorio cittadino.