Per anni Walter Veltroni scontò la locuzione “ma anche”, presa a simbolo di una sua presunta indecisione su tutto. Molti anni più tardi Nicola Zingaretti venne immortalato sulla copertina dell’Espresso con la frase “Il compagno Boh” per evidenziarne un certo immobilismo strategico.
Ma che dovremmo dire allora di Enrico Letta? La sua proverbiale cautela sta diventando vaghezza, il suo parlare a bassa voce è diventato inudibile, il suo felpato modo di fare sembra alludere alla fuga dalle responsabilità: ecco come le qualità possono tramutarsi in difetti. Vediamo solo gli ultimi esempi, ché la lista sarebbe lunga.
La Cgil proclama (con la Uil) uno sciopero generale di otto ore, di quelli cioè che si fanno quando la lotta è dura davvero e la posta in gioco decisiva, spacca dopo anni l’unità sindacale sindacale con la Cisl e il segretario del Pd che dice? «Non mi metto a dare giudizi sulle scelte dei sindacati».
Ora, va capito il dramma di un partito che per metà sta con Landini – cioè la sinistra interna che ha le chiavi del Nazareno – e un’altra metà che è maggiormente vicina al governo di Mario Draghi, di qui l’imbarazzo del segretario che è “amico” della Cisl ma certo non può criticare apertamente i compagni della Cgil. Detto questo, un vero “capo” prende una posizione un po’ più chiara. Pur senza attaccare i due sindacati, avrebbe benissimo potuto dire qualcosa che suonasse come una garbata presa di distanza dallo sciopero. Altro che “ma anche”.
Oppure, parliamo del caso di Roma. Letta prima candida lui stesso Giuseppe Conte a Roma 1 (a questo punto non si sa nemmeno se per fargli fare la figuraccia che ha fatto: ma non sono amici?) e poi, tramontata l’ipotesi e non presa in considerazione la candidatura di Elena Bonetti, ieri ha detto che «decideranno i romani».
Ma insomma qual è il metodo? Chi decide? Ancora: Letta, almeno secondo la vulgata, vuole il bis di Mattarella ma l’autorevolissimo senatore Luigi Zanda presenta una legge per vietare in futuro appunto un bis del Presidente uscente, suscitando la sorpresa (ovvio eufemismo) del Capo dello Stato facendolo irrigidire ancora di più sul suo diniego. Letta non poteva non sapere del ddl Zanda, e dunque cosa si deve pensare? Infine, il segretario ha lavorato per l’ingresso degli otto europarlamentari grillini nel gruppo dei socialisti europei, poi c’è stato un stop chiesto tra gli altri dalla vicesegretaria Irene Tinagli ma già solo l’ipotesi ha fatto fare le valigie a Carlo Calenda, e poi della cosa non si è più saputo niente: eppure sarebbe una mossa strategica, possibile che venga gestita così?
E soprattutto ci sono le questioni più di fondo. Ancora nessuno ha capito se il segretario del Pd si sia convinto di eleggere Draghi al Quirinale o no o, più precisamente, cosa intende fare per far restare Draghi a Palazzo Chigi come ha ripetuto anche ieri. Perché allora non dice chiaramente che il Pd non ritiene di votarlo per il Colle?
Così come ancora non è chiaro cosa il numero uno del Nazareno intenda fare per costruire il famoso “campo largo” che rischia di restare uno slogan buono per tutte le stagioni ma talmente generico da restare un’araba fenice. Per ora, va annotato che il campo si restringe all’Ulivetto Pd-Articolo Uno-M5s, visto che poco o nulla Letta sta facendo per cercare di aprire un discorso con i riformisti di Renzi, Calenda, Bonino. Questi ultimi saranno pure a dir poco riottosi e polemici, ma il Pd sembra ne sia contento. Il che è legittimo ma allora Letta lo dica. Cerchi altrove. Come ha scritto perfettamente Paolo Mieli ieri sul Corriere, «se i leader di Pd e M5S non chiariranno esplicitamente quali sono i partiti del centro che considerano interni al campo largo» la storia è destinata a finire molto male. Letta quindi deve prendere le decisioni che spettano a un capo politico. Altrimenti lo chiameranno “l’amico Boh”.