(guido vitiello, il foglio, aprile 2022) Ogni volta che m’imbatto in un nuovo elogio della complessità – ossia tutti i giorni, da un mese e mezzo a questa parte – mi si affaccia alla mente un’immagine cara a Leonardo Sciascia, quella del berretto di Charles Bovary: Flaubert spende parecchie righe nel tentativo di descriverlo – dice che ha qualcosa del cappuccio di pelo, del colbacco, del cappello rotondo, del berretto di lontra, del berretto da notte – salvo concludere, alla fine del tour de force, che ricordava la faccia di un imbecille. Per la proprietà transitiva delle similitudini, non riesco più a guardare le nostre facce da talk-show senza sovrapporle ai lineamenti di quell’inclassificabile berretto, che per Sciascia era una perfetta immagine della complicazione non necessaria. Ma non è, il mio, un sussulto di antiintellettualismo facilone; lo stesso Sciascia, del resto, amava presentarsi come “uno che cerca di semplificare secondo verità”, e in quell’aggiunta c’era l’essenziale: esistono infatti semplificatori secondo menzogna – quei terribles simplificateurs la cui fortuna europea Jacob Burckhardt aveva presagito nel 1889, anno di nascita del piccolo Adolf. Va da sé, così come si può essere semplificatori menzogneri, si può anche “complicare secondo verità” quando il servizio alla verità lo impone – purché non se ne faccia un partito preso intellettuale.
Nel 2008 lo storico Russell Jacoby ironizzò sulla moda accademica della complessità a ogni costo: “Il mondo è complicato, ma come ha fatto la ‘complicazione’ a trasformarsi da realtà innegabile a obiettivo desiderabile? Come ha fatto l’atto di complicare a diventare una virtù?”. Era, diceva, tutto un “problematizzare”, “contestualizzare”, “relativizzare” e “complessificare”, specie ciò che appariva “binario” (parola che già allora stava diventando una parolaccia). Jacoby concludeva, parafrasando Hegel, che il culto della complicazione ci ha portato non già a una notte, ma a una nebbia in cui tutte le vacche sono grigie. Inutile dire che, quando si contesta il “paradigma della logica binaria” a proposito di un’invasione militare, non è il manto delle metaforiche vacche ma lo spazio morale tra invasori e invasi a trasformarsi in una vasta “zona grigia”.
Assodato che esistono una buona e una cattiva complessità, non è difficile descrivere le tappe della fabbricazione del copricapo dei nuovi complessisti: prima s’inventano il fantoccio caricaturale di un “pensiero unico” guerrafondaio e binario che nessuno ha mai seriamente sostenuto, poi lo abbattono con facilità, infine lo usano come trampolino per librarsi al di sopra di noi del gregge semplicista, così da poter volteggiare nell’aria sgombra. E noi pecorelle saremmo anche ansiose di assistere al loro spettacolo, salvo dover constatare, con una certa impazienza, che lo spettacolo non arriva mai, e si esaurisce in quel gesto iniziale di atletica retorica. La complessità resta per lo più un annuncio vago e dilatorio, una promessa vuota; e quando cerca di darsi un contenuto, è un contenuto che si fatica molto a definire complesso – che siano gli sproloqui degli illustri mitomani della commissione DuPre, o i fervorini pasquali di frate Orsini battezzatore di ospedali, o infine le catalanate di Donatella Di Cesare, che ha scoperto, bontà sua, che al mondo non ci sono angeli e demoni, che le guerre hanno una storia e delle cause, che anche l’occidente ha sbagliato qualcosa e che in generale dialogare è meglio che bombardarsi.
Il vero enigma di un berretto così rozzamente cucito è perché tanti sentano il bisogno di calcarselo in testa, e di sfoggiarlo in contrapposizione all’elmetto che allucinano sulla testa dei loro avversari. Mettiamo da parte le motivazioni fatue di alcuni (i piccoli stratagemmi della vanità mediatica e del vittimismo autopromozionale) come pure le ragioni poco limpide di altri, che hanno coltivato per anni il sodalizio con un criminale di guerra e con la sua macchina di propaganda. Costoro non soffrono lacerazioni interiori, anzi sono convinti che quel berretto gli stia a pennello, e proprio questo li rende poco interessanti. Dedichiamoci piuttosto a quelli che indossano il colbacco complesso con un evidente disagio, un disagio che dal 24 febbraio scorso non ha fatto che crescere, e che le immagini atroci di Bucha rendono ora intollerabile. Ebbene, sospetto che il loro culto della complessità non sia altro che un estremo, affannoso tributo a una semplicità ideologica perduta. Dopo tutto, spesso hanno alle spalle carriere pluridecennali di semplicisti antiatlantici. Da settimane vivono uno choc prolungato da dissonanza cognitiva, perché pur con tutti gli sforzi non riescono a far quadrare gli eventi ucraini nello schema elementare di simpatie e antipatie, di amici e nemici, su cui si è retta da sempre la loro coscienza politica, uno schema così radicato nei loro pensieri e nei loro sentimenti che gli è impossibile capovolgerlo: ogni fibra del loro essere si ribella. La resa di Zelensky gli è necessaria prima di tutto per mettere fine alla loro guerra interiore; e anche per questo la invocano tanto. Vedono un piccolo paese, una giovane e sbilenca democrazia, brutalmente invaso da una superpotenza imperiale che però non si chiama Stati Uniti.
Che fare? Bisogna frugare negli antefatti, ma solo finché non si trova l’antefatto giusto: così Michele Santoro, ricostruendo la vicenda ucraina, ha scelto guarda caso di partire dal 2015, anno in cui cominciano gli aiuti militari americani a Kiev, e non dal 2014, quando i russi annettono la Crimea e occupano il Donbas (la causa prossima degli aiuti militari). Con la giusta dose di profondità storica – ma non un anno di più, mi raccomando – i conti tornano di nuovo e la dissonanza cognitiva si placa: all’origine della nuova guerra ci sono i nemici di sempre. Non basta: vedono un dittatore che fa raduni scenografici negli stadi con una regia che pare fatta da Leni Riefenstahl, che esorta a eliminare i parassiti e i traditori, ma davanti all’abbagliante gigantografia di un fascista fatto e finito il loro primo istinto è cercare al microscopio tracce residue di fascismo nelle schiere del suo nemico, fino a paragonare Zelensky al Duce, come ha fatto Ritanna Armeni, o a chiamare il governo ucraino “guerrafondaio”, come ha fatto Ida Dominijanni. E ancora: vedono un popolo che resiste strenuamente all’invasore, e si impegnano in defatiganti discussioni storiografiche per negare agli ucraini la patente di partigiani, loro che cantavano Bella Ciao senza batter ciglio perfino contro l’editto bulgaro di Berlusconi o il referendum costituzionale di Renzi.
E’ miseria, sì, ma c’è del metodo. Tutti i sotterfugi dialettici della complessità sono infatti dispiegati a un solo fine, che di complesso ha ben poco: proteggere la semplicità di uno schema ideologico da fatti che lo contraddicono troppo vistosamente e dolorosamente, e trovare una ragione presentabile e apparentemente spassionata – proprio loro, che portano le emozioni al calor bianco non appena vola una pallottola americana o israeliana – pur di giustificare la loro assenza di empatia e simpatia politica per la causa ucraina, un vuoto che si affannano a camuffare nei farisaici incipit dei loro articoli. Nel panico per la semplicità perduta, ricorrono al più primitivo dei meccanismi di difesa, quello delle seppie: spargono inchiostro nero, ma sui giornali e sulla rete, perché in acque informative torbide è più facile resistere all’assedio della realtà.
Ancora una volta, la cattiva complessità serve a sormontare e a nascondere la cattiva semplicità, come un copricapo inutilmente arzigogolato. E’ il solito berretto di Charles Bovary, “una di quelle povere cose, insomma, la cui bruttezza silenziosa ha la stessa profondità d’espressione del viso d’un idiota”.