(gilberto corbellini) Le società aperte hanno prodotto, come spiegava Barack Obama in una celebre intervista a Wired del 2016, l’epoca migliore in cui trovarsi a vivere dall’inizio della storia umana. Ma non sono uscite fuori come Minerva dalla testa di Giove, né nascono in natura. Sono il prodotto culturale della diffusione di mentalità scientifica, libero mercato (leggi capitalismo) e governo attraverso la legge (rule of law). Esse sono resilienti, come si dice oggi, ma in quanto condizioni complesse, sono minacciate dall’entropia, per cause sia esterne sia interne. Tra le prime ci sono le crisi alimentari, le epidemie/pandemie, i cambiamenti climatici, le catastrofi naturali e le guerre. Le seconde sono, come spiegava Popper, le credenze culturali “alternative”, alimentate da dogmatismo e relativismo, ovvero sono dovute al fatto che la nostra mente di base è sempre quella tribale, e non appena ne ha l’occasione ragiona in modo motivato o partigiano, negando i fatti oggettivi. Se le persone non acquisiscono quella che alcuni neuropsicologi cognitivi chiamano una “seconda natura”, si comportano di norma irrazionalmente, lasciandosi rischiosamente abbagliare da soluzioni illiberali dei problemi. Quando i due generi di cause si combinano, i rischi per le nostre precarie libertà si moltiplicano.
Qualcosa che stiamo vedendo in questi ultimi anni, anche dalle discussioni pubbliche prima sulla pandemia e ora alla guerra. Programmi televisivi e giornali andavano prima a caccia dei no-vax o dei negazionisti del virus da usare come bersagli per pallottole morali, ovvero facevano scendere nell’arena esperti di diverse scuole mediche, che se le suonavano di santa ragione. Ora sono i cosiddetti “putiniani” l’ambita preda da far scappare per cacciarla, che ovviamente stanno a un gioco che appaga il loro patologico narcisismo e la loro faziosità, ma anche chi azzarda analisi geopolitiche troppo complesse. Deve comunque scorrere del sangue “culturale” e la comunicazione che paga sembra essere solo quella fatta facendo combattere i pro e i contro. Tutto molto tribale. Un filosofo confuciano del VII secolo scriveva, pare a ragione, che “schierarsi pro o contro è una malattia mentale”.
Noi che abbiamo la fortuna di essere nati e di abitare in uno dei paesi del mondo civile che ripudia la guerra come metodo per risolvere le controversie, sembra che non abbiamo capito o preferiamo ignorare la natura di quel fenomeno che si chiama “guerra”.
Non è che perché abbiamo capito che è una pessima opzione e la ripudiamo, la guerra non ci sarà più. Come col razzismo: non è che perché la scienza ha dimostrato che le razze di cui intuitivamente discorriamo non esistono in natura, allora anche il razzismo scompare.
Mentre la scienza sa spiegare e in teoria controllare le pandemie, non può fare niente in modo diretto contro la guerra, che condiziona in qualche forma l’evoluzione umana dal tempo in cui ci siamo separati dagli altri primati. La guerra tra Russia e Ucraina preoccupa tutti e tutti ne parliamo, ma, come è stato per la pandemia, dando soprattutto sfogo nella discussione pubblica a una schiera di bias. Dal che si evince che, anche nelle società aperte, la nostra mente tribale è in ottima salute e lotta ancora insieme a noi.
Esiste più di un parallelo tra epidemie/pandemie e la guerra.
Oltre al fatto di essere due dei cavalieri dell’Apocalisse di Giovanni, che viaggiano insieme alla terza peggior causa di morte nel passato, le carestie. Per quest’ultima dobbiamo solo aspettare un anno, dato che come sta già accadendo per l’energia i prezzi dei cereali andranno alle stelle, visto che si combatte in quello che si chiama “granaio d’Europa”. Potrebbe effettivamente tornare la malnutrizione, laddove era solo un ricordo, se non si ferma subito la guerra.
Su chi sia l’aggressore e chi l’aggredito non ci sono dubbi. Ma se due persone che conosco minacciano di aggredirsi o lo stanno facendo, prima di chiedermi chi ha cominciato, chi ha ragione, da che parte mi devo schierare, se poteva fare qualcosa per impedirlo, chi devo aiutare, etc., di norma cerco di sedare la rissa e di evitare che si allarghi. Se chi era pagato per evitarlo non ci è riuscito, nutro qualche dubbio sulla capacità di alcuni di loro ancora in campo di spiegarci “la rava e la fava” di cosa stia avvenendo e che fare.
Detto questo, i fatti e le discussioni in corso seminano un campo che viene coltivato a violenza e morte dalla notte dei tempi. Cioè la guerra, come costante nella storia umana. Cosa sia la guerra è dato per scontato, ma se lo si sapesse davvero si capirebbe che il modo in cui ci si schiera non ne influenza l’esito e che di fronte ai conflitti, ammesso che li si voglia far finire, si devono separare le emozioni dall’esame razionale della situazione, perché si corre il rischio di avallare decisioni che abbiamo le prove che sono sbagliate. Forse fanno il gioco delle parti, ma tra Biden e Macron chi sta lavorando nel modo migliore per portare pace è di sicuro il secondo.
La nostra psicologia non è tarata per infezioni che uccidono in pochi mesi il 10, il 20 o il 50% di una comunità (per esempio peste o vaiolo).
Di fronte dell’aggressività noi siamo abili nel gestite conflitti molto violenti ma tra gruppi ristretti (bande) e limitati nel tempo anche se ripetuti, negoziando sulla base di una morale pragmatica e funzionale agli interessi del gruppo.
Disponiamo quindi di diverse strategie comunicative per placare l’aggressività su scala ridotta, cioè per limitare i danni possibili, e soprattutto siamo inibiti dai combattimenti corpo a corpo, mentre con la crescita demografica e lo sviluppo agricolo sono arrivati conflitti molto più cruenti, dove si sparano pallottole e si sganciano bombe da aerei, dove non si devono guardare in volto le persone quando le si uccide, e quindi più difficili da circoscrivere.
Noi non siamo pacifici per natura, ma possiamo esserlo, così come estremamente violenti, per cui siamo portati e disposti a fare la guerra in certe condizioni, e a vivere in pace in altre condizioni. Ma pace e guerra non sono uno l’opposto dell’altro: sono due facce della nostra natura. Platone l’aveva forse capito quando scrisse che se vogliamo davvero la pace, dobbiamo preparare la guerra. La Nato, e il Papa, forse no.
Se quel che sappiamo sull’evoluzione dell’aggressività umana è vero, credere che le sanzioni economiche abbiano efficacia è una forma di pensiero magico. Non esistono prove storiche che qualche sanzione economica abbia fermato qualche guerra o cambiato l’evoluzione politica di un paese totalitario in senso democratico.
Il principio espresso sinteticamente da Frédéric Bastiat, e che riprende riflessioni che risalgono a Montesquieu, per cui “dove non passano le merci, passano gli eserciti” è del tutto corretto. Non è una legge, e infatti non dice che “dove passano le merci non passeranno mai gli eserciti”, ma che se due paesi intrattengono rapporti economici stabili, fatti di frequenti interrelazioni, la probabilità che si facciano la guerra è molto bassa. Un’analisi di oltre 300 conflitti tra il 1815 e il 2005 mostra che tra democrazie non è mai scoppiata una guerra, ovvero che le guerre negli ultimi due secoli hanno visto combattere tra loro per due terzi dittature e, per terzo, dittature e democrazie. In un ordine economico globalizzato, dove si possono trovare altre soluzioni ai problemi creati dall’interruzione di rapporti di scambio le sanzioni economiche favoriscono la propaganda e il sentimento di minaccia od odio da parte di chi le subisce, la repressione del dissenso, la colpevolizzazione dell’aggredito, i sentimenti xenofobi: in una parola stringe ancor più i lacci del totalitalismo senza minarne la stabilità, se esiste un cemento ideologico-nazionalistico che lo tiene insieme.
È bastato sentir parlare di contagio e guerra, e sono esplose oltre il normale, cioè anche fuori dagli stadi sportivi, faziosità, superficialità, pregiudizi, moralismo, xenofobia, complottismo, etc., dati in pasto a un’opinione pubblica che non aspettava altro per polarizzarsi di conseguenza. È stato come slatentizzare delle frustrazioni, togliere il coperchio di una pentola. Le invocazioni dei medici e politici a chiudere tutti in casa di fronte al virus, gli appelli alla tolleranza zero con relativo elogio della Cina contro i contagi (No Covid) e l’imposizione di lasciapassare e obblighi vaccinali con decreti governativi, usando come pretesti anche no-vax e negazionisti del virus, sembrano fare il paio con l’ondata di sdegno e la disponibilità ad andare alla guerra contro Putin, o con le demenziali spiegazioni per cui l’Occidente e la Nato sarebbero responsabili della decisione russa.
Abbiamo ripudiato la guerra, cioè siamo migliorati nel tenere a bada impulsi belligeranti, non perché ci siamo convertiti al pacifismo sulla via di Damasco. Ma grazie al fatto che promuoviamo culturalmente la scienza, il capitalismo e la democrazia, proteggendo la libertà delle persone. Queste condizioni non esistono ovunque. Le democrazie costituzionali nel mondo continuano a essere minoranza e sono aggredite dall’entropia illiberale e totalitaria. Da parte di paesi non liberali, la capacità di evitare la guerra come opzione non è migliorata rispetto al passato.
Da un certo momento in poi, quando le comunità umane sono diventate stati o nazioni guidate da capi o caste, chi governa utilizza soprattutto la psicologia dell’arruolamento, volontario o forzato, cioè alimenta l’odio per il nemico, il disimpegno morale e la disumanizzazione. Ma non esistono modi che possiamo usare spontaneamente per fermarci quando diamo inizio a una guerra. È qualcosa di analogo a quello che accade con epidemie e pandemia: ci siamo evoluti per saper controllare i contagi in piccole comunità (come il distanziamento fisico), ma quelle euristiche sono meno efficaci o non lo sono affatto per governare una pandemia o una guerra. Per cui di fronte a una pandemia siamo colti dal panico, cerchiamo capri espiatori, neghiamo la minaccia, decidiamo il coprifuoco, etc. Quello che funziona all’interno di comunità umane di poche decine o centinaia di persone, non funziona quando sono in milioni e milioni le persone organizzate in nazioni e religioni che si differenziano sul piano dei valori o delle economie.
Come è accaduto con la pandemia, ma nel caso della guerra anche peggio, sono scattati quei bias o fraintendimenti cognitivi ed emotivi che il nostro cervello tribale usa di norma per autoingannarsi e ipocritamente manipolare i cervelli che gli gravitano intorno.
Chi non si schiera dalla parte giusta è un traditore, chi non è allineato non deve parlare: ma bastasse schierarsi o raccontarsi qualche narrazione strumentale per uscire dalla tragedia in corso, nessun problema. Purtroppo, schierarsi allontana l’opzione della pace.
Alcuni ricercatori, basandosi su conoscenze psicologiche e storiche, hanno sviluppato una teoria della guerra che hanno chiamato “Rubicone”, dalla famosa decisione di Giulio Cesare. La domanda che si sono fatti è: cosa succede via via che ci si avvicina alla decisione di varcare il Rubicone? E cosa accade dopo? Come cambia il modo di ragionare passando da una sponda all’altra?
Abbiamo assistito a settimane di ottimismo e ascoltato politici ed esperti ricorrere a un eccesso di argomenti per rassicurare sul fatto che la guerra tra Russia e Ucraina non ci sarebbe stata. Una volta scoppiata la guerra è stato un ulteriore tripudio del senso comune (che, come diceva Manzoni riferendosi alla pestilenza, costringe il buon senso a nascondersi), cioè di decisioni e giudizi presi impulsivamente. Noi predichiamo la razionalità e il pensiero critico, a volte come si predicano i dogmi religiosi, ma i nostri politici sono i primi a non usarli. Idem per gli intellettuali. Non l’hanno fatto con la pandemia e non lo stanno facendo con la guerra.
Putin, che probabilmente ha una mente molto semplice come spesso gli autocrati, ci si sta affogando nella presunzione, anche perché un autocrate per definizione si circonda solo di persone che gli danno sempre ragione. La presunzione può aiutare all’interno di dinamiche di gruppo, nella conflittualità con altri gruppi, se il conflitto è limitato. Ma su scale demografiche vaste è spesso il viatico per sottovalutare la situazione, causare ingenti danni e fallire. C’è poi il problema specifico del nazionalismo, che è una ideologia che proietta motivatamente il senso di coesione e comunità che sperimentiamo nel piccolo gruppo verso il grande, con effetti disastrosi.
Quello che sta accadendo tra Russia e Ucraina è quello che per decine di migliaia di anni accadeva a popolazioni più o meno consistenti di nostri antenati.
Per centinaia di migliaia di anni gli scontri fra bande che si incrociavano su un demograficamente molto rarefatto pianeta (10mila anni fa sul pianeta camminava circa lo stesso numero di abitanti della Regione Lazio) entravano spesso in conflitto e gli stessi bias cognitivi che generavano quegli scontri, cioè la polarizzazione “noi contro loro” è quella che alimenta qualunque guerra.
Con la nascita dell’agricoltura, l’espansione demografica, la differenziazione culturale, la nascita degli eserciti professionali, gli scontri tra bande di poche decine o centinaia di persone e che quindi si risolvevano in pochi giorni, diventavano le guerre combattute anche a distanza e che potevano protrarsi per mesi o anni, e ripetersi periodicamente. Persino noi, in Occidente, che crediamo di essere i portatori della razionalità, in realtà subito ci schieriamo pro o contro qualcuno, e mettiamo in atto ritorsioni che sono sia lesive sia autolesive nel nome di valori che valgono solo per noi. È vero che la cura, il rispetto, l’altruismo, la simpatia, la compassione etc, sono valori umani reali e sono universali, e che perché questi valori prevalgano e ne possano godere al meglio i nostri figli, vale battersi. Ma sono universali anche l’inganno e l’autoinganno, l’onore, la xenofobia, l’aggressività, la disumanizzazione, etc. Non è che dicendo che questi sono male, e gli altri bene, abbiamo riscritto il nostro programma genetico della specie per la psicologia sociale.
Purtroppo, non impariamo niente dalla storia, anche perché non ce la raccontiamo mai per come è. E anche questa è una conseguenza di come funziona il cervello.
I politici vogliono solo sentirsi dire le cose di cui sono già convinti, ovvero quelle che pensano che porteranno più consenso. Anche nel merito di alcuni andamenti delle guerre possiamo dire qualcosa che viene dagli studi evoluzionistici: abbiamo visto che l’Ucraina sta impensabilmente tenendo testa alla Russia, che accecata dall’overconfidence ha sottovalutato che la condizione di chi si difende può essere più partecipata socialmente di quella di chi aggredisce. I massimi strateghi militari, da Sun Tzu e von Clausewitz, hanno discusso se sia più facile condurre una aggressione difensiva o una offensiva, e il problema è stato studiato sperimentalmente da alcuni psicologi, i quali hanno mostrato che dati diversi scenari le persone sono più propense a impegnarsi nelle aggressioni difensive e che una guerra difensiva è sociobiologicamente più facile da condurre, ma non necessariamente.
Su un piano diverso, non dovremmo dimenticare il fallimento della politica di esportazione della democrazia da parte degli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle.
Le ideologie occidentali sono fallimentari quando si misurano con il progetto di costruire delle democrazie dove mancano le condizioni minimali necessarie. Se i nostri sistemi di credenze non si confrontavano con la realtà della natura umana, per cui noi pensiamo erroneamente che chiunque preferirebbe vivere in una democrazia, sceglierebbe spontaneamente la liberà, preferirebbe per i propri figli o figlie l’indipendenza, possiamo fare più danni del totalitarismo stesso.