Il dibattito sulla guerra in Ucraina è viziato da alcuni equivoci di fondo. Un esempio, recentemente illustrato da Giorgio Comai in un articolo per l’Osservatorio Balcani-Caucaso, riguarda il concetto di “denazificazione”. Cioè, alla radice, cosa intendiamo, noi e i russi, quando parlano di nazismo.
Per noi, infatti, il nazismo è anzitutto la forma più tremenda di antisemitismo; per la propaganda di Mosca nazismo è fondamentalmente un sinonimo di anti-russo. Quella che per noi è la Seconda guerra mondiale, non per niente, per loro è la Grande guerra patriottica. Per noi la svastica significa Auschwitz, per loro è prima di ogni altra cosa la bandiera di un esercito invasore. Ecco perché nell’opera di “denazificazione” può essere serenamente impiegato quel gruppo Wagner che pure, quanto a richiami all’ideologia nazista, nulla ha da invidiare al famigerato battaglione Azov.
Incapaci di distinguere il dito dalla luna, molti dottor Stranamore del post-comunismo italiano – e non solo – cadono purtroppo nell’equivoco, scambiando il grido di battaglia del nazionalismo russo per l’appello di un nuovo fronte antifascista, e Vladimir Putin, politico ultra-conservatore, punto di riferimento e generoso finanziatore di fascisti e sovranisti di mezzo mondo, per la reincarnazione di Lenin.
Ancora più significativo è l’equivoco attorno all’aggettivo “liberale”, con fior di intellettuali che sembrano scambiare la dichiarazione di guerra alla democrazia liberale da parte del regime di Putin per una battaglia di sinistra contro l’egemonia del pensiero neoliberista, e conseguentemente gli appelli a un fronte comune dei liberaldemocratici per dichiarazioni di voto a favore del Pli di Giovanni Malagodi.
È una forma estrema di dissonanza cognitiva, in cui gli Stati Uniti sono sempre quelli del Vietnam e del colpo di Stato in Cile, e in cui la Nato e l’Occidente in generale sono invariabilmente sinonimi di imperialismo e colonialismo, contro i quali la sinistra ha dunque il dovere di schierarsi, in difesa della libertà, della democrazia e del diritto all’autodeterminazione dei popoli oppressi.
Il fatto che a tentare di rovesciare la democrazia ucraina, a invaderne il territorio, a commettere ogni sorta di atrocità sui civili non siano soldati americani, ma russi, ha prodotto in molte persone, come reazione istintiva, prima la negazione della realtà e poi la fuga in una realtà alternativa.
Il nemico numero uno della democrazia liberale in Europa, nonché principale alleato di Putin, oggi è Viktor Orbán, che in Ungheria sta costruendo un sistema sempre più autoritario, tra l’altro, attraverso la criminalizzazione degli immigrati e delle ong. È questo il futuro che sognano per l’Italia i comprensivi difensori delle ragioni di Putin?
Occorre grande pazienza e grande attenzione, anche nel linguaggio, per tentare di disinnescare certi automatismi, su cui fanno leva politici spregiudicati. Occorre spiegare a tante brave persone – ce ne sono, in mezzo a tante altre persone meno brave e meno disinteressate – che il fascismo è dall’altra parte; che difendere la democrazia liberale non significa combattere contro la progressività fiscale o l’aumento dei salari, ma in difesa della libertà e dei diritti fondamentali di ogni cittadino; che Alexander Dugin, ideologo di Putin e di quel fronte rossobruno capace di attirare populisti europei e americani di ogni estrazione, non è Senghor e tanto meno Che Guevara, e non pensa affatto che quella in corso sia una guerra di liberazione, ma semmai «una guerra spirituale contro i gay».