Marco Bellocchio (1939) affronta la sua prima serie tv tornando sui 55 giorni del sequestro Moro che nel 2003 aveva affrontato con il magnifico “Buongiorno, notte”. Il trailer è fuorviante, sembra che il maestro piacentino di Bobbio intenda replicare il grottesco del sorrentiniano “Il divo”, invece è un film in due parti (dal quale sono state ricavate 6 puntate) dove ritroviamo il tocco del nostro autore geniale che è unico perchè assomiglia solo a se stesso.
Nelle prime 3 (non dico nulla sulla trama) oltre a Moro ci sono due personaggi che vengono scandagliati, il bipolare Cossiga (Fausto Russo Alessi) e il tormentato amico Paolo VI (Toni Servillo) che morirà tre mesi dopo lui. Nelle altre ci sono i brigatisti Faranda e Morucci e la moglie di Moro, una Noretta che la Buy rende come meglio non si potrebbe. Le serie tv sono cinema puro che consente appunto agli autori di fare drammaturgia, di scavare dentro i personaggi sino a mostrarne l’anima togliendo loro la maschera, cosa che nel contesto di un film di due ore è molto difficile fare. Bellocchio è un maestro, chiunque ami il cinema lo sa, soprattutto adesso che i grandi li abbiamo tutti alle spalle (Bertolucci è l’ultimo scomparso). “I pugni in tasca” e “La Cina è vicina” sono del 1965 e del 1967. Nel 1972 fece “Sbatti il mostro in prima pagina” e poi la sua ricerca si è fatta sempre di più psicanalitica, interiore, esistenziale, come se la realtà italiana lo interessasse meno.
Dai 64 anni in poi, invece, prima con “Buongiorno, notte” e poi con “Il traditore” del 2019, Bellocchio è tornato ad occuparsi della società italiana. Adesso con questa serie, ormai saggio ma sempre inquieto, volge lo sguardo alla nostra “storia” ben sapendo che noi italiani siamo smemorati, a stento ricordiamo quello che è successo un giorno fa. Figuriamoci cosa possiamo ricordare del 1978, dei democristiani, e delle Brigate rosse, dei pazzi sanguinari che incolpavano i comunisti di non aver fatto la rivoluzione e di fare troppe chiacchiere.
L’estremismo, malattia infantile del comunismo, ha sempre trovato una culla accogliente in Italia, dove si saldano facilmente rivoluzionari da operetta (ricordate Allosanfan dei fratelli Taviani) e intellettuali ipocriti con le menti finissime, irresponsabili vecchi stalinisti e criminali senza nè arte nè parte. Bellocchio ai miei occhi ha il merito di metterci di fronte certe facce, di mettere a nudo le loro anime, più o meno sporche, costringendoci ad una fatica che non ci piace, fare i conti con la nostra storia, dove c’è la Resistenza, poi l’antifascismo militante che sfocia nelle sanguinarie Brigate rosse (i neneisti esordirono allora) e nello stragismo nero.
L’unico strumento che è mancato a Bellocchio in questo capolavoro è Morricone con la sua musica (immaginiamo quanto lo avrebbero ispirato la figura di Paolo VI o il cardinale Casaroli), mentre la fotografia di Di Giacomo e la Calvelli al montaggio sono il meglio del meglio che si trova in giro. Nella serie non perdete di vista le figure secondarie, interpretate tutte da grandi attori, come il poliziotto Spinella di Pier Giorgio Bellocchio e il monsignor Curioni di Paolo Pierobon. Infine ci sono schizzi e intuizioni sublimi di grande cinema d’Autore, come la bambina della brigatista Adriana Faranda sola all’uscita della scuola mentre tutti gli altri genitori si sono precipitati a portare a casa i figli.