La battaglia sulle concessioni balneari sarà studiata nel futuro come la cartina di tornasole dell’Italia alle prese con la questione “concorrenza”. Siamo un paese pieno di “vincolisti” convinti per il 99% che meno concorrenza c’è, meglio si vive. Chi vuole la concorrenza è un “liberista” e va combattuto o messo in prigione.
Per capire l’origine del “problema”, la L. 145/2018 aveva esteso le concessioni balneari fino al 2033. L’allora Ministro del turismo aveva giustificato il provvedimento come un “periodo transitorio”, necessario ad attuare il riordino generale del settore, che, però, a distanza di tre anni, non è stato ancora completato.
Nel frattempo sono arrivate una lettera di messa in mora dall’Unione europea e svariate pronunce dei Tar, spesso in contrasto fra loro, tra chi ha confermato la validità della scadenza al 2033 e chi invece l’ha disapplicata.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza 18/2021 del 9 novembre scorso, ha recentemente “demolito” la validità delle concessioni balneari, sancendo che l’estensione delle stesse concessioni al 2033 è illegittima e che lo Stato deve riassegnare i titoli entro due anni, tramite gare pubbliche, poiché l’estensione al 2033 sarebbe contraria al diritto europeo, in quanto proroga automatica e generalizzata.
Secondo i giudici amministrativi, i titoli in essere non sarebbero più validi già oggi, ma è comunque possibile mantenere l’efficacia delle attuali concessioni fino al 31 dicembre 2023.
Il Consiglio di Stato spiega molto bene la questione: “nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative […], al contrario degli appalti o delle concessioni di servizi, la p.a. mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo. Basti pensare che il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime”. L’attrattiva economica, rilevano ancora i giudici, è inoltre anche aumentata dall’ampia possibilità di ricorrere alla sub-concessione, essendo evidente che, a causa del ridotto canone versato all’Amministrazione concedente, il concessionario ha la possibilità di ricavare, tramite una semplice sub-concessione, un prezzo più elevato rispetto al canone concessorio, commisurato al reale valore economico e all’effettiva valenza turistica del bene”.
Conclude quindi il CdS che, “pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole delle concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile, non solo sul piano costituzionale nazionale (dove pure è chiara la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza derivanti da una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali), ma, soprattutto e ancor prima, per quello che più ci interessa ai fini del presente giudizio, rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione”.
Che fa il governo, dunque mette a gara le concessioni? No, stretto tra i vincolisti sovrani Salvini e Conte, il ddl concorrenza del governo prevede semmai che, entro sei mesi dall’approvazione della legge, il governo stesso debba adottare uno o più decreti legislativi per riordinare il settore, frutto di una decisione collegiale fra 5 ministeri. Se anche il provvedimento fosse approvato, insomma, bisognerebbe aspettarne un altro, mettendo d’accordo cinque ministeri diversi. Qualcosa del genere accadrebbe anche col servizio taxi e noleggio con conducente (Ncc): il ddl concorrenza prevede sì che in qualche modo si sistemi il settore, ma con una legge delega. Ammettiamo che il governo riesca a far approvare il ddl per l’estate: i sei mesi successivi sono quelli che ci conducono verso le elezioni. Improbabile che i partiti accettino di mettere mano alle licenze dei taxi.
Tanto rumore per nulla? Queste norme non cambieranno granché la nostra vita. Le spiagge valgono un granello di sabbia del Pil italiano. Sono oggetto di delega anche i servizi pubblici locali, che sul Pil pesano ben di più e che, politicamente, sono un altro nido di vespe.
C’è però un valore simbolico, spiega Alberto Mingardi sul Corsera: è il punto della bandiera delle riforme. Il guaio è che queste ultime ormai sono una specie di medicina che i partiti si dicono disponibili a buttar giù solo con lo zuccherino del Pnrr. Per quanto blandi possano essere i cambiamenti normativi di cui si discute, se non fossero la contropartita dei sussidi europei non se ne parlerebbe nemmeno. Mettere a gara le spiagge difficilmente avrà effetti particolarmente rilevanti sulla crescita. I partiti possono legittimamente pensare che il costo della riforma, in termini di consenso, sia più elevato che il beneficio. Sembra però che lo pensino di qualsiasi passo verso un’economia di mercato più aperta.
È ragionevole? Si dirà che nel resto del mondo il «liberismo» è passato di moda. In Italia però non passa mai di moda il «vincolismo». L’impresa da anni attende una netta semplificazione di norme e regolamenti. Le attività anche più piccole sono sommerse da cascate di adempimenti. Persino quanto è stato fatto per introdurre trasparenza e per rendere più lineare il rapporto fra Pubblica amministrazione e cittadino, spesso, si è risolto nel suo contrario. Nei settori dai quali lo Stato era uscito (pensiamo alle assicurazioni) è ritornato prepotentemente. Servizi essenziali come scuola e sanità restano chiusi alla concorrenza e mostrano tutti i difetti del monopolio. Spesa elevata e ramificazione dell’impresa pubblica lasciano presagire un futuro nel quale ad affermarsi saranno i privati più bravi a tessere relazioni, non i più bravi sul mercato. L’unico laissez-faire che conosceremo è, come sempre, il lasciar fare i furbi.
Tutto questo ha un costo: è una pesante tassa sulle imprese private che funzionano, che spesso fanno il grosso del proprio fatturato all’estero e che reggono sulle spalle tutto il sistema. Sono proprio loro che beneficerebbero di un po’ più di concorrenza, per esempio nell’ambito dei servizi: sia perché i loro costi si abbasserebbero, sia perché un assetto basato su mercati più aperti considererebbe e valorizzerebbe il talento in modo diverso. Le intelligenze che scelgono di passare dove l’acqua è più bassa, imboscandosi nel parastato, sono uno spreco per il Paese.
Davvero non c’è partito politico che voglia allentare le briglie alla parte del Paese che può correre e trainare tutti gli altri? Questa non è una questione «tecnica»: non si tratta di dettagli di carattere giuridico. È un problema invece squisitamente politico: riguarda l’idea che abbiamo dell’Italia e degli italiani. I partiti sembrano considerarci un Paese assistito e di assistiti. Come se il Paese non esprimesse anche indipendenza, creatività, impegno. O come se il voto di chi li esprime valesse meno di quello degli altri.