L’abbraccio a Di Maio certifica l’avvenuta spoliticizzazione del Pd

Penso, credo e spero di non essere stato l’unico, ieri mattina, ad avere avuto un sussulto nel leggere le parole di Enrico Letta sulla prima pagina di Repubblica: «È prematuro parlare di Di Maio nel nostro partito, ma dialogo con tutti». Per un momento ho sperato che si trattasse di una forzatura del titolista, ma il titolo corrisponde perfettamente al contenuto dell’articolo, e le stesse dichiarazioni sono riportate anche sulla Stampa. Insomma, tocca rassegnarsi: le cose sono andate proprio così. A domanda sull’ipotesi che Luigi Di Maio aderisca al Partito democratico, il segretario del Pd ha risposto che sono «discorsi prematuri». Tempo al tempo.

Luigi Di Maio, per chi non lo ricordasse, era candidato alle ultime elezioni politiche come capo di un movimento che si è sempre posto quale principale obiettivo quello di spazzare via la «piovra» del Pd (per usare le parole di un loro indimenticabile manifesto del 2016), lo stesso Di Maio che nel 2019 accusava in un video i democratici di togliere alle famiglie «i bambini con l’elettroshock per venderseli». Il fatto che al termine della stessa legislatura si parli dell’ipotesi di una sua adesione al Pd, e che il leader del Pd definisca tale ipotesi semplicemente prematura, dà l’idea di come è ridotta la politica italiana. Ma anche di come è ridotto il Pd.

Da quando a sinistra, all’inizio della legislatura, si è aperta la discussione su un’eventuale alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 stelle, chi come me è sempre stato contrario – pur essendo stato favorevolissimo alla scelta di non regalare il voto anticipato e i «pieni poteri» a Matteo Salvini, perché la vita è fatta di priorità – si è sempre sentito rivolgere l’obiezione che con qualcuno il Pd doveva pur allearsi, altrimenti si condannava alla sconfitta.

Ho sempre contro-obiettato, magari anche con un filo di wishful thinking, non lo nego, che a mio parere alle prossime elezioni il Movimento 5 stelle non ci sarebbe nemmeno arrivato, ma non è questo il punto. A colpirmi, in quel modo di ragionare, è sempre stata un’idea della politica come gioco a somma zero, ma soprattutto come una competizione in cui, per il Pd, l’ipotesi della sconfitta non è più contemplabile.

Negli ultimi undici anni il Partito democratico è stato all’opposizione soltanto per la fuggevole stagione del governo gialloverde, tra 2018 e 2019. Per buona parte dei restanti dieci anni è stato il principale sostenitore di governi di larga o larghissima coalizione, in nome della responsabilità nazionale.

L’idea di condurre una battaglia politica per conquistare consensi nella società sembra essere completamente uscita dal suo orizzonte. E forse proprio per questo oggi appare prontissimo ad accodarsi a tutte quelle che gli capitino a tiro, a volte anche con qualche eccesso di zelo (zelo che mal si concilia con la rapidità con cui, passato il picco dell’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione e dei social network, sembra poi dimenticarsene).

Sta di fatto che tolta la politica – intesa come lotta per affermare una posizione, per rappresentare qualcuno e qualcosa – quello che resta è solo un insensato gioco delle poltrone: fine a se stesso, autoreferenziale, incomprensibile. Un ritratto che paradossalmente corrisponde proprio al modo in cui il Movimento 5 stelle e Di Maio in particolare hanno sempre rappresentato il Pd.

Mostrando di non avere particolari remore ad accogliere persino il campione di quel populismo che più di ogni altra cosa dovrebbe combattere, il Partito democratico certifica così la propria crisi esistenziale.

Se qualcuno, lì dentro, ha qualcosa da dire in contrario, farà bene a parlare ora. Prima che i tempi maturino.