Boeri e Perotti/ Mettete in agenda la povertà

Chiunque si troverà a governare l’Italia dopo le elezioni del 25 settembre dovrà cercare di lenire le ferite della pandemia e affrontare le nuove emergenze sociali imposte dal ritorno dell’inflazione. I dati dell’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie nel 2020, assieme alle ricerche svolte dall’Istat su mandato della Commissione Lavoro della Camera, offrono un quadro abbastanza nitido di quello che è successo in questi anni. Tre fatti ci sembrano di particolare rilievo.

Primo, e non sorprendentemente, oggi ci sono circa un milione di persone in più sotto la soglia della povertà assoluta rispetto a prima della pandemia.

Secondo, gli indici numerici di diseguaglianza non sono aumentati. Tuttavia, la natura della diseguaglianza è cambiata rispetto a prima della pandemia e rispetto a recessioni precedenti. Questa volta sono state soprattutto le donne, le persone impiegate nei servizi di alloggio e di ristorazione e nelle attività artistiche, di intrattenimento e divertimento, e i lavoratori autonomi a pagare lo scotto. A loro si aggiungono, come in passate recessioni, i lavoratori con contratti temporanei, soprattutto al di sotto dei 35 anni, che statisticamente hanno perso il lavoro 10 volte di più dei lavoratori più anziani.

Terzo, gli ammortizzatori sociali emergenziali introdotti durante la pandemia sono stati efficaci nel contenere le diseguaglianze e nell’impedire un ulteriore calo dei redditi di chi era già povero. Ma data la loro natura episodica hanno solo temporaneamente tappato le falle del nostro sistema di protezione sociale. Le misure temporanee inoltre non possono rassicurare le famiglie beneficiarie circa il futuro dei propri redditi.

Alla luce di questi dati di fatto, lasciano perplessi alcune delle proposte avanzate in questo inizio di campagna elettorale: l’abolizione del reddito di cittadinanza (Renzi); la sua sostituzione con un reddito di solidarietà riservato unicamente ai cittadini italiani che hanno reddito zero (Meloni); l’innalzamento a 1000 euro delle pensioni minime (Berlusconi).

Il RdC come attuato in Italia va ovviamente cambiato, soprattutto nella sua relazione fallimentare con le politiche attive del lavoro, ma un reddito di ultima istanza esiste in tutti i paesi europei tranne la Grecia. E ci sarà un motivo. Riservare l’assistenza sociale solo a chi ha reddito zero vuol dire scoraggiare la ricerca di qualsiasi impiego, perché guadagnare anche un solo euro comporterebbe l’esclusione dal beneficio. A nostra conoscenza nessun paese al mondo ha un programma contro la povertà così crudo. Al contrario, bisogna permettere di cumulare in parte reddito di ultima istanza e salari al di sotto di una certa soglia per spingere i beneficiari a cercare lavoro, come avviene in tutti i paesi avanzati.

Inoltre il reddito di ultima istanza deve coprire anche chi è arrivato da meno di dieci anni nel nostro paese perché è in gran parte tra queste famiglie che si annida la povertà. Servirà anche ad evitare buchi neri di povertà che assorbirebbero tutto e tutti rendendo esplosive le nostre periferie. Infine l’aumento delle pensioni minime a 1000 euro costa più di 30 miliardi e andrebbe a favore dell’unica categoria in cui l’incidenza della povertà non è aumentata in questi anni.

Per affrontare le nuove emergenze bisognerebbe invece pensare a come offrire protezione sociale anche al lavoro autonomo, nel quale si annidano molti lavori di fatto alle dipendenze, e ai lavoratori temporanei soprattutto nei servizi maggiormente colpiti dalla pandemia, tra i quali le donne sono in prevalenza.

Sarà poi necessario occuparsi degli effetti distributivi di una inflazione prossima alle due cifre. Colpisce soprattutto chi ha redditi bassi e fissi. Un salario minimo indicizzato all’inflazione, come le pensioni minime, sarebbe uno strumento importante. Ma l’unica proposta oggi in discussione in Italia prevede di fissare minimi salariali (mensili!) estendendo a tutti i lavoratori di una data categoria il minimo salariale fissato dalla contrattazione nazionale per quella categoria. In Italia ci sono 985 contratti nazionali. Ammesso e non concesso che si possa, con una legge sulla rappresentanza, stabilire quali sono quelli veramente rappresentativi, sarebbero almeno 50 i salari minimi diversi, applicati magari a diversi lavoratori nella stessa impresa. Anche in questo caso non siamo al corrente di un salario minimo così concepito in nessun paese avanzato.

Un salario minimo è un salario minimo: unico, applicabile a tutti, anche ai lavoratori che oggi sfuggono alle maglie della contrattazione collettiva; un diritto di cui ogni lavoratore sia consapevole e di cui possa esigere il rispetto al datore di lavoro. Quando mai questo sarà possibile con 50 minimi diversi e dai confini spesso molto incerti? Il salario minimo è uno strumento di civiltà, è incomprensibile che finora il dibattito su questo argomento sia stato completamente asservito alle posizioni dei grandi sindacati e della Confindustria, e ignori completamente l’esperienza e il dibattito di tutti gli altri paesi.