C’è la campagna elettorale della brancaleonica alleanza di Enrico Letta, dei dentisti gratis di Silvio Berlusconi, della corsa contro tutti di Matteo Renzi, della disperazione di Giuseppe Conte, del disagio del Cocomero, dell’odio tra Meloni e Salvini. E poi, come se fosse la seconda retta parallela che con l’altra non si incontra mai, c’è la politica come vita reale, cioè come cose che accadono realmente: c’è Mario Draghi, insomma. L’Italia vive questo assurdo strabismo politico e non sembra che lo sguardo torni a essere coerente, che la politica cioè superi la schizofrenia tra brutto spettacolo dei partiti e buongoverno.
Draghi già manca, eppure è ancora a palazzo Chigi, e non a scaldare la sedia. Ci sono i fatti a parlare per lui, i fatti reali, il susseguirsi di événements, direbbero gli storici delle Annales. Risultati che si possono toccare. Occupazione record, riduzione della dipendenza del gas dalla Russia, crescita che continua, e ieri il nuovo decreto Aiuti con il taglio al cuneo fiscale, la rivalutazione anticipata delle pensioni, gli sconti in bolletta e il taglio delle accise prorogati e la nuova stretta sugli extraprofitti. Non male per un governo che stava raddrizzando le cose e che è stato inopinatamente disarcionato da un avvocato di provincia in preda al panico e dai nemici dell’Europa.
Ma la domanda è un’altra. Cosa ha impedito al Pd, al netto degli ossequiosi omaggi al capo del governo di cui fa peraltro parte, di assumere in toto quella che viene chiamata “agenda Draghi” che altro non è che un insieme di politiche riformatrici e europeiste svolte secondo una modalità trasparente e, se vogliamo, condotta con stile? Non si tratta di tirare Draghi per la giacca. Si tratta di proseguire seguendo questa rotta: Europa, Pnrr, riforme. «Credibilità internazionale», ha sottolineato ieri il premier.
Toccava a Enrico Letta su questa base includere ed escludere, e oggi non si assisterebbe allo spettacolo di questi giorni, ma la verità è che questo Partito democratico è tuttora condizionato da una mentalità per così dire “egemonica”, per la quale bisogna sempre “andare oltre”, verso un orizzonte diverso ancorché imprecisato: insomma, l’importante è stare a capotavola. Di qui, l’equivoco di fondo del gruppo dirigente del Nazareno (o di una sua parte) che consiste nel non aver chiaro che Draghi segna il confine tra gli schieramenti, tra chi lo considera una parentesi e chi uno spartiacque. Purtroppo il Pd ha scelto la prima formula, la parentesi, e dunque non ha fatto nulla, anzi ha fatto il contrario, per divenire esso stesso la “forma politica” del draghismo, così che la maggioranza degli italiani che vuole che la linea di Draghi vada avanti anche nel futuro, potessero vedere nel partito di Letta la grande infrastruttura politico-parlamentare di questa linea.
Ma al di là della politologia, qui emerge il nocciolo duro della campagna elettorale e del morale del Paese. La schizofrenia di cui si diceva tra spettacolo e buongoverno. La contraddizione per la quale il premier è la soluzione ma al tempo stesso un intralcio per i partiti. Sarebbe toccato ai riformisti di varie forze politiche unirsi a favore del Draghi-spartiacque invece di accettare il Draghi-parentesi. Il possibile riaggancio dei sinistri-verdi va nella seconda direzione, quella dell’archiviazione di questa esperienza di governo e forse sarà un problema per una sua eventuale seconda chance. Così come l’estromissione di fatto di Matteo Renzi dalla coalizione è il segno di un assurdo accecamento assurdo e pregiudiziale.
È tardi per recuperare la lezione di Draghi? Forse no. Di sicuro basterebbe un cenno, una frase, uno sguardo di Mario Draghi per riaprire la partita elettorale e salvare l’Italia e l’Europa: in ogni caso, visto che lui non sarà della partita, questa è la carta buona che il centrosinistra può giocare. Se davvero vuole giocare.