Disuguaglianza, poveri, pensionati? Le statistiche dicono altro

(STEFANO CINGOLANI) In Italia la destra è scesa in campo contro i ricchi protetti e garantiti dalla sinistra delle Ztl (i radical chic, i bo-bo, la gauche caviar, i pariolini, insomma, le definizioni abbondano). E agita lo spettro di un impoverimento crescente a causa delle politiche di austerità imposte dagli eurocrati e dai politici asserviti ai bankster, i quali sono stati chiamati, orrore orrore, persino al governo (e dagli contro i Mario Monti o i Mario Draghi). Anche la sinistra, non solo quella radicale, ha battuto la grancassa contro il neoliberismo e il neocapitalismo (c’è sempre un neo sempre peggiore del vecchio). Parlare di povertà, dunque, è diventata una giaculatoria stantia. Ma chi vuol sfuggire ai luoghi comuni o alle bandierine ideologiche, finisce per addentrarsi in una vera babele di dati, formule, linguaggi.

La crescita ancora una volta è la premessa per ridurre diseguaglianze e povertà, nell’ultimo biennio il prodotto lordo è aumentato come mai, consentendo un recupero del pil perduto con la pandemia. Sembra lapalissiano, così non è. Il governo Meloni insiste nel mettere al centro non la creazione di nuovo reddito nazionale, ma la distribuzione di quello che già c’è. In questo modo si trova con sempre meno risorse da spendere e sempre più gridi di dolore che salgono da ogni parte della nazione e restano inascoltati, per forza di cose.

Ha sofferto di più chi aveva meno di 40 anni, se l’è cavata meglio chi aveva più di 60 anni. Eppure i voti si chiedono promettendo più pensioni
Ha sofferto di più chi aveva meno di quarant’anni, se l’è cavata meglio chi aveva più di sessant’anni. La spiegazione è semplice: i pensionati hanno mantenuto il loro reddito, chi lavora invece o ha perduto il posto o ha visto ridursi la paga durante la crisi; e poi tra i giovani c’è il più grande serbatoio di disoccupati. Dunque distribuzione della ricchezza e povertà relativa sono strettamente collegate all’andamento dell’economia: per avere più giustizia e meno povertà bisogna crescere. La conferma si trova anche nei paragoni internazionali: l’Italia negli ultimi vent’anni è il paese dove salari e stipendi sono aumentati meno, ma ciò non è vero per le pensioni, i cui trattamenti sono anche migliori rispetto a paesi del nord Europa.

Sembra lapalissiano, basta il buon senso, non bisogna essere come Gini, eppure il circo mediatico politico sostiene che i pensionati stanno peggio di tutti, si chiedono i voti promettendo pensioni più alte con uscita dal lavoro prima possibile, nascondendo che così in pochi anni verrebbe a mancare la base contributiva che consente all’Inps di erogare l’assegno: i pensionati sono già 16 milioni, i lavoratori dipendenti 18 milioni, i lavoratori autonomi 5 milioni e pagano poco per le pensioni, ancora meno per i contributi sociali. L’indagine della Banca d’Italia mette in risalto che un costo pesante è caduto sugli immigrati, sono loro ad aver pagato più degli altri la crisi perdendo reddito e lavoro.

L’inflazione ci fa tutti più poveri: ecco un altro luogo comune pressoché inattaccabile. Se fosse vero, nei dieci anni di inflazione vicina allo zero saremmo dovuti diventare tutti più ricchi. Ma soprattutto non è vero che siamo tutti colpiti allo stesso modo. Il deprezzamento della moneta riduce i redditi fissi, non quelli variabili che in genere si aggiustano verso l’altro. Penalizzato è chi riscuote una busta paga sostanzialmente bloccata o dal contratto di lavoro o dalle condizioni dell’impresa che non consente bonus e compensazioni. I pensionati sono in parte garantiti dall’aggiornamento periodico dell’assegno (anche se non copre completamente il rialzo del costo della vita). I lavoratori autonomi reagiscono aumentando i prezzi delle loro prestazioni. La tazzina di caffè è il più quotidiano dei termometri che in genere agisce con la stessa logica dei future nel gioco della finanza: sale anticipando i rincari, non si limita compensarli ex post. E’ vero che anche il barista deve sostenere costi maggiori e solo alla fine dell’anno si potranno calcolare i risultati, ma la storia dimostra che in genere le vittime dell’inflazione sono i risparmiatori, gli operai, gli impiegati (persino quando c’era la scala mobile che oltre tutto faceva rimbalzare sempre più in alto i prezzi), mentre ne traggono vantaggio i debitori e i percettori di redditi autonomi. Anche con l’inflazione, dunque, c’è povero e povero. Meglio non dirlo a chi come i grillini aveva cantato vittoria grazie al reddito di cittadinanza; ora s’apprestano a difenderlo piazza per piazza e… boia chi molla, lo gridava Ciccio Franco nel 1970 a Reggio Calabria, lo sentiremo ancora.

Per chi non sbarca il lunario occorre un’opera da certosini, invece si è preferita la strategia del ventilatore, sostegni a pioggia

Attenzione, finora abbiamo parlato di povertà relativa, ma i poveri più poveri, quelli che non sbarcano il lunario? E’ vero che sono aumentati? E quanti sono? Passiamo così nel campo della povertà assoluta (meno di 1,90 dollari al giorno secondo la Banca mondiale, in Italia 640 euro al mese per individuo, 1.300 per una famiglia con un figlio). La Caritas dice che colpisce un milione e 960 mila famiglie, pari a cinque milioni e mezzo di persone, quasi il 10 per cento della popolazione, una percentuale enorme, forse eccessiva. La situazione è peggiore tra i giovani che tra gli anziani – rispettivamente 11,4 contro il 5,3 per cento (sembra contro-intuitivo, ma conferma l’indagine Bankitalia sulla distribuzione del reddito) – e nel sud rispetto al nord. Anche in questo caso non è tanto l’assistenza, quanto il lavoro a fare la differenza. La pandemia ha peggiorato la situazione: nel 2017 l’Istat calcolava in cinque milioni i poveri sotto la soglia assoluta, dunque le persone impoverite sarebbero mezzo milione. Un numero drammatico di bambini, donne, uomini in forte sofferenza sul quale si deve concentrare qualsiasi seria politica sociale. Occorre un’opera da certosini per conoscere le singole situazioni e intervenire. Invece, si è preferita la strategia del ventilatore, sostegni a pioggia, chi è più veloce l’acchiappa e passa la paura. Forse ne beneficia la propaganda politica, forse significa più voti, certo non si traduce in meno povertà, né assoluta né relativa. Non sfuggono al rischio dell’effimero nemmeno gli stessi miglioramenti dell’indice di Gini. Il governo Draghi ne può andare orgoglioso, invece li hanno ignorati i partiti che hanno fatto parte di quell’esecutivo. In ogni caso, restano parziali e momentanei se dipendono soltanto da sostegni, bonus, erogazioni monetarie legate alla situazione contingente. Solo un aumento dei posti di lavoro può spezzare la trappola della povertà. Sembra ovvio, ma non è così a giudicare da una politica di bilancio che destina due terzi delle risorse a tamponare le perdite passate e non gli rimane nulla per stimolare la crescita futura.

Il dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, che fa capo a Palazzo Chigi, ha pubblicato nei mesi scorsi una serie di dati sugli ultimi quarant’anni. Uno colpisce in modo particolare: il livello del pil italiano, nonostante il gran rimbalzo del 2021-22, ha raggiunto il 2019, ma è ancora nettamente inferiore a quello del 2007. I numeri spesso parlano e rivelano scomode verità.