Ogni mattina dell’inverno 2023 il lettore italiano si sveglia, e sa che su qualche giornale o qualche social un intellettuale che fino a quel momento gli era parso non del tutto imbecille si dedicherà a un qualche esercizio di stile attorno all’intelligenza artificiale.
Ho chiesto all’intelligenza artificiale chi sono io. Ho chiesto all’intelligenza artificiale di scrivermi un programma di partito. Ho chiesto all’intelligenza artificiale di scrivermi una canzone di Sanremo.
È una moda che mi fa nello stesso sospiro ridere e piangere. Fa ridere la perpetua disponibilità della classe intellettuale italiana a credere che qualunque stronzata le venga proposta nel settore dell’espressione tecnologica sia il futuro. Terrorizzati di diventare i nostri genitori che non sanno impostare l’ora legale sul forno a microonde, ma per le ragioni sbagliate. Li guardiamo, i vegliardi con microonde, e non ci diciamo: ma certo, ha centocinque anni, perché mai dovrebbe essere in pari con la modernità. Ci diciamo: ah, ma io non finirò così, io sarò un centocinquenne ferratissimo nell’utilizzo del teletrasporto o quale diavolo sarà per allora la cosa avveniristica.
Per allenarci a cambiare l’ora sul display del microonde tra qualche decennio, intanto corriamo dietro a ogni novità. Second Life. Clubhouse. I reel. La rava. La fava. E ora l’intelligenza artificiale.
Fa piangere il sottotesto, che in Italia è sempre quello, e i social l’hanno peggiorato. Per un libro illustrato, l’autore dei disegni guadagnerà di più di quello delle parole. Scrivere, pensa l’editoria italiana, è una cosa che possono fare cani e porci; mica come disegnare che, invece, significa saper fare una cosa.
Quindici anni di social non hanno contribuito a migliorare le cose. Dovevano essere un mezzo per dimostrare che tutti credono di saper scrivere, ma invece ecco, guardali lì che risultati, che raccapriccio, che penzierini imbarazzanti, che scempio. E invece hanno solo dimostrato che il lettore non è in grado di distinguere tra Vongola75 e Martin Amis, tra i penzierini e la letteratura, tra le macchie di sugo e i Pollock.
In uno splendido racconto sul nuovo Lucy, Domenico Starnone evoca il sé stesso giovane che, come molti cani d’oggi, scriveva in terza persona: «Dire “io” mi sembrava una goccia di ragù sulla pagina fine della Letteratura». Avrete letto anche voi centinaia di recensori italiani presentare la loro opinione come «si ritiene che», o in casi di particolare coraggio «pensiamo che»: a loro non sembra un modo ridicolo di mettere giù la cosa più personale che esista, ovvero la critica culturale; a loro sembra, direbbero percependosi Harold Bloom e risultando Gianfranco Funari, tanto fino.
E quindi, se cani assortiti si vantano di non scrivere «io»; se professioniste evidentemente infelicitate dalla cecità compilano decine di righe su quelle che si pettinano come la Meloni elencando tizie che potrebbero sembrare pettinate come la Meloni solo a un maschio eterosessuale calvo; se qualunque cane scriva «io» sulla propria pagina Facebook non si percepisce in piedi sulla cassetta della frutta a Hyde Park ma pronto a diventare il nuovo Walter Siti: se tutto questo accade ogni giorno delle nostre infelici vite di lettori, allora perché non dovrebbe scrivere l’intelligenza artificiale?
Per quel poco che mi ci sono dilettata – certo che anch’io, come tutti, ho per dieci minuti pensato di fare il pezzo «come mi risponde l’intelligenza artificiale», poi mi sono distratta a guardare l’Instagram di Beppe Sala, sul quale una qualche intelligenza naturale dovrebbe scrivere un grande romanzo – l’intelligenza artificiale ha gli stessi limiti degli umani. Non sa googlare, per esempio: dice che Guia Soncini non esiste, che Paolo Virzì ha sceneggiato i film di Pieraccioni, che Gipi ha scritto fumetti che non ha mai scritto.
D’altra parte la programmano gli umani, il che ha causato – forse ve ne ricordate – un quarto d’ora di scandalo qualche settimana fa. Si è appreso che quegli affari automatici che gente persino più pigra di me usa per pulire il pavimento scattano foto delle nostre dimore. Lo si è appreso perché le foto vengono scattate in modo da far apprendere all’intelligenza artificiale se, chessò, quella è una lampada contro la quale evitare d’andare a sbattere sennò si rompe. Ma, per apprenderlo, un umano deve dirglielo. E quindi le foto che le macchine scattano vengono inviate a umani che danno loro risposte. E una macchina ha fotografato una tizia sul gabinetto, e gli umani che l’hanno ricevuta si sono nell’open space passati questa foto sghignazzando, e violazione della privacy scandalo allarme sociale.
Ma, benedetti ragazzi: voi avete presente le vite di silenziosa disperazione che vive la più parte dell’umanità? Gente per la quale una tizia sul gabinetto è esilarante. Gente la cui ricreazione è guardare foto delle case degli altri o andare sul Twitter di Salvini a insultarlo. Ma certo che ridono delle sconosciute: se cominciano a piangere di sé sai poi quanti suicidi. Se questa cosa non la capiamo noi umani, cosa mai può capire l’intelligenza artificiale che – porella – ci emula?
Ieri Gipi – che, avendo capito come si fa a pagare il mutuo in Italia, si guadagna da vivere disegnando – pubblicava su Instagram le istantanee del suo bullizzare l’intelligenza artificiale chiedendole di scrivere un programma di partito, e poi redarguendola perché tra i punti essenziali non aveva messo la cultura. L’intelligenza artificiale, emula dei tic e dei complessi e delle smanie di presentabilità del ceto medio artificiale, si è profusa in scuse e continuava a ripetere che la cultura era importantissima. Era uno spettacolo straziante, ma l’intelligenza artificiale non sa ridere o piangere di sé (proprio come i suoi addestratori).
Per fortuna passerà anche questo passatempo, come tutti quelli che scambiamo per il futuro, e torneremo ai passatempi che continuiamo a dare per morti: commentare le foto di bambini orrendi che i nostri amici mettono su Facebook, scrivendo «ma com’è cresciuto, ma è bellissimo, ma è uguale a te». Giacché la curva d’apprendimento degli umani, come quella artificiale, è inesistente, i nostri amici prenderanno alla lettera le nostre parole, scambiandole per lodi, e per ricambiare commenteranno favorevolmente il nostro post che dice che ci vogliono più fondi per la cultura.