Non ci sono solo i balneari, tassisti, notai, aziende pubbliche di trasporto che continueranno a non vedere le proprie concessioni messe a gara. L’avversione profonda alla concorrenza è una patologia sempre più estesa nella politica italiana, a destra come a sinistra. Prevale l’idea paternalista che sia lo stato e non il mercato a disciplinare prezzi e tariffe, a tutelare i mille interessi che hanno solo svantaggi da un’ondata generale in cui siano i liberi prezzi a determinare la migliore e più efficiente offerta del servizio secondo la valutazione del cliente. E così la produttività generale italiana, naturalmente, continua a languire.
Vicenda del tutto analoga è quella del disegno di legge che sta per essere approvato a passo bersaglieresco dal Parlamento: alla Camera sono bastate tre settimane per passare dalla commissione all’aula con voto finale senza modifiche. Legge che nasce da un ddl a prima firma Meloni – e questo ne spiega la celerità – della scorsa legislatura. Che mira a tutelare i piccoli professionisti dalla famigerata avidità delle grandi imprese. Passo indietro: sulla disciplina delle tariffe professionali si battaglia da molti anni. I minimi erano stati aboliti in tempi di liberalizzazioni, ma con il decreto legge 148/2017 riapparve la volontà di tutelare un equo compenso ai professionisti nei rapporti con imprese bancarie e assicurative e grandi imprese, per evitare presunte situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti e clienti “forti”.
Si previde nullità delle clausole predisposte dalle imprese committenti laddove i compensi fossero non in linea con i parametri ministeriali che divennero obbligatori, mentre all’epoca delle liberalizzazioni erano dovuti per i soli casi di mancato accordo tra le parti. Nei fatti, il decreto reintroduceva un tariffario invigilato per i servizi professionali, abrogato nel 2012 perché limitativo della concorrenza nel mercato di tali servizi, sostituendolo con il riferimento ai “parametri” definiti dal Ministero vigilante. La legge Meloni in corso di fulminea approvazione va ben oltre. Non solo i “contraenti forti” diventano non più le sole grandi imprese ma tutte le medie imprese sopra i 50 dipendenti o i 10 milioni di euro fatturati. Ma spetterà al tribunale ordinario pronunciarsi se il compenso sia equo o no rispetto ai parametri ministeriali. E ciliegina sulla torta, per i professionisti iscritti a ordini e collegi professionali spetterà agli ordini stessi “sanzionare” coloro che accettino liberamente tariffe inferiori. Il parere di congruità degli ordini diventa vero titolo esecutivo, come se gli ordini fossero parificati al giudice di Stato. E, attenzione, la mannaia non cade solo su intese contrattuali dettate unilateralmente dal committente, bensì su tutte le intese, anche quelle liberamente pattuite ma segnalate da professionisti rimasti all’asciutto. E mica solo i piccoli poveri singoli professionisti, bensì qualunque intesa di prestazione di servizio che riguardi anche studi associati in forma societaria e plurispecializzati.
Sintesi estrema: invece di incentivare la nascita di sempre più estese forme associative di professionisti in grado di offrire a più basso costo migliori servizi integrati all’impresa, l’esatto opposto. Piccolo è bello e piccolo va difeso. L’Antitrust scrisse nel 2017 che la reintroduzione mascherata delle tariffe professionali era “in stridente controtendenza con i processi di liberalizzazione che, negli anni più recenti, hanno interessato il nostro ordinamento anche nel settore delle professioni regolamentate”. Infatti, collegando l’equità del compenso ai paramenti tariffari contenuti nei decreti ministeriali, tali previsioni reintroducevano di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di “limitare confronti concorrenziali tra gli appartenenti alla medesima categoria, piuttosto che tutelare interessi della collettività”. Eventuali criticità connesse alla presenza di fruitori di servizi professionali con elevato potere di domanda – continuava l’Antitrust – non vanno affrontate attraverso la fissazione di un prezzo minimo per l’erogazione dei servizi, che avrebbe l’unico effetto di alterare il corretto funzionamento delle dinamiche di mercato e ostacolare lo spontaneo adattamento di domanda e offerta. Che dirà ora l’Antitrust, in presenza di una stretta ancora e molto più forte? Si accettano scommesse: qualunque cosa l’Antitrust dicesse, la politica attuale se ne farebbe ampi baffi.