Eppure, al di là di questa ritrosia istintiva, un elemento del dibattito dei giorni scorsi mi ha stranito: l’obiezione comune, ovunque ripetuta, che non abbia alcun senso cercare delle responsabilità per un momento in cui «non si sapeva nulla», in cui la situazione era «assolutamente nuova» e comunque «nessuno aveva capito». Tutte affermazioni che incoraggiano un condono frettoloso, universale e acritico: se non si sapeva nulla, era impossibile commettere errori; se nessuno capiva, nessuno fu responsabile. Peccato che non sia andata così.
I giorni del 2020 fra la fine di febbraio e la chiusura nazionale del 9 marzo sono stati senza dubbio frenetici e confusi, ma la gravità delle circostanze era chiara a molti, soprattutto alle persone competenti in materia. Tornare con onestà al livello di conoscenza di quel momento, come molti invitano a fare per guardare l’inchiesta dal verso giusto, significa anche tornare al livello di tutto ciò che non si poteva ragionevolmente escludere, perché la conoscenza è fatta tanto di pieni quanto di vuoti, e una gestione assennata dovrebbe tenere conto di entrambi.
In più, che l’epidemia in Italia fosse in fase espansiva ed esponenziale, era chiaro almeno dalla fine di febbraio. Questo unico dato, insieme al fatto che il virus, quello sì, fosse «assolutamente nuovo» per la specie umana, e mortale, erano indicazioni sufficienti per l’adozione delle misure più stringenti in assoluto contro il diffondersi del contagio, ovunque. Che queste misure stringenti non siano state adottate in fretta quanto si poteva, che ciò sia successo con disomogeneità irragionevoli anche fra territori contigui, e seguendo procedure contorte, non fu conseguenza del fatto che «non si sapeva nulla». Fu conseguenza, semmai, di un rifiuto dell’enormità degli eventi, quando quegli eventi erano ancora invisibili o appena visibili (una reazione difensiva, comprensibile almeno a livello psicologico, che avremmo visto ripetersi ancora a due anni di distanza). Fu conseguenza delle competenze pregresse molto scarse dei decisori politici in tema di salute pubblica, della loro ridotta abitudine all’ascolto dei pareri scientifici (chi doveva, dopo aver guardato, decidere, ha impiegato del tempo solo per capire dove guardare). Fu dovuto all’assenza di un metodo a cui affidarsi nella raccolta e nella trasmissione delle informazioni rilevanti, e più in generale alla mancanza di una cultura della preparazione. Ma non solo. Quanto è accaduto è stato anche l’effetto – questo non dovrebbe smettere di interrogarci – di una contrapposizione esplicita, evidente già allora: pesare il rischio sanitario rispetto ad altri, di stress economico in testa.
Ci sono dettagli di quei giorni che fatico a ricordare, ma ricordo molto bene le conversazioni, i «non si può» e gli «è impensabile che». La ratio iniziale nella gestione della pandemia è stata quella di preservare la normalità socioeconomica al di sopra del resto, e quella ratio è stata mantenuta fino a quando è stato inevitabile rovesciarla, all’improvviso, per mettere in primo piano la tenuta del sistema sanitario. Un approccio che avrà prodotto dei benefici almeno momentanei in determinate aree ma anche un aggravamento decisivo in altre.
Un elemento ulteriore va corretto nel dibattito: i giorni che vanno dal 25 febbraio al 9 marzo 2020 sono pochi numericamente, ma furono giorni molto densi, nei quali anche la consapevolezza del pericolo cresceva in fretta. Trattarli ora come un unico periodo informe di smarrimento è un’altra mistificazione.
Se le ipotesi controfattuali, come la stima dei morti evitati nel caso si fosse agito diversamente, sono difficili da sostenere e ci provocano una diffidenza istintiva (soprattutto se si spingono a fornire dei numeri precisi all’unità), ciò non significa che non si possa procedere a una disamina più accurata di quel segmento temporale.
Per molti, la maggior parte di noi per fortuna, il covid rimarrà un trauma senza evento specifico. Ma esiste un sottogruppo di persone, concentrato soprattutto nel nord e ovviamente negli ospedali e nelle strutture di degenza di tutto il paese, per le quali quell’esperienza è stata altro. Ha portato alla scomparsa improvvisa e scioccante di affetti prossimi, letteralmente da un giorno all’altro, e all’impossibilità di elaborarne il lutto. Non esiste e non esisterà mai un punto di vista davvero legittimo dal quale considerare la pandemia che non sia il loro. Per una democrazia moderna e sana dovrebbe essere un automatismo, quello di privilegiare la prospettiva dei più coinvolti, dei più sofferenti. Se ci sono, quindi, delle famiglie a Bergamo, a Nembro e ad Alzano, in tutta la val Seriana, che non si ritengono appagate dal livello di chiarezza fornito fino a qui dalle istituzioni, la loro richiesta non può in alcun modo essere liquidata con la formula dogmatica «nessuno ci aveva capito niente».
Ci sono quanto meno una serie di accadimenti da mettere in ordine, ed è doveroso farlo, con spirito equanime e scientifico, non solo per ragioni etiche, né soltanto per rispondere al loro bisogno, ma anche perché ci sono una serie di informazioni rilevanti, in quella narrazione, sui pregi e i difetti del nostro funzionamento come stato.
In un editoriale del 5 marzo, Luigi Ferrarella ha indicato una terza via rispetto a quella penale, probabilmente inadeguata, e a quella dell’oblio, palesemente ingiusta: un processo di «giustizia riparativa, di transizione, post bellica». Mi permetto di aggiungere che un’analisi condotta da esperti imparziali, non solo su quei primi giorni ma anche sull’autunno successivo, possono fornire la base comune per arrivarci. Forse si tratta di una suggestione personale, ma mi sembra che esista, nel nostro paese, una tendenza naturale a lasciare che i drammi collettivi scivolino, per così dire, «verso Ustica». Verso un vuoto di senso, laddove qualcuno avrebbe diritto a una verità, anche incompleta.
Tutti noi, in effetti, ne abbiamo diritto: un resoconto condiviso e il più possibile coerente ci è necessario per non ricadere, in futuro, nelle stesse scelte, in errori analoghi.
Nessuno sarà così sconsiderato da additare delle singole persone, e nemmeno delle singole forze politiche come colpevoli dell’epidemia in Italia. La responsabilità delle prime morti di covid si perde nel lungo tempo precedente il covid, e in ogni caso è talmente distribuita da polverizzarsi. Ciò non significa, però, che non esista, e che non si debba almeno tentare di raccogliere per bene la polvere. Se l’emotività di molti di noi nel frattempo si è spostata altrove, se siamo stanchi, molto stanchi, questo non è affatto un buon motivo per rinunciare.