“C’è stato un intreccio pericoloso tra sistema giudiziario e sistema mediatico. Se ci pensiamo non è stata una deriva della giustizia, che in sostanza ha dimostrato di funzionare, smontando tesi insussistenti. Bensì del cortocircuito mediatico. Perché i media avrebbero dovuto rivendicare un’indipendenza rispetto alle procure, non limitarsi a pubblicare quanto gli veniva passato, senza fare proprie autonome verifiche”, analizza Violante. “Questo non è vero giornalismo, è giornalismo da riporto. I giornalisti devono controllare tutti i poteri, compreso quello giudiziario. E non mi ha sorpreso che alcuni dei cantori della cosiddetta Trattativa adesso stiano manifestando un certo imbarazzo”.
“Ripeto, il problema principale è stato credere che le idee, i pregiudizi, avessero la preminenza sui fatti. In un certo senso, sembra che si siano piegati i fatti per la ricerca disperata della conferma delle proprie tesi. E’ un processo partito da un’idea politica, i cui principali sostenitori hanno abbandonato la trincea. Ingroia per la politica e Di Matteo per il Csm”. Diciamo che la Trattativa è servita anche da grande indotto pubblicistico-narrativo. Forse l’unico vero lascito ora che le sentenze hanno cancellato la quasi totalità di quella narrazione a senso unico è un invito alla prudenza professionale per magistrati e giornalisti. “Ma un retropensiero mi rimane”, confessa allora l’ex terza carica dello stato. “Certo è che la risonanza mediatica che hanno avuto è stata anche un modo, il più facile, per farsi notare”.