Trasformare il mondo, anche se ancora il nuovo non c’è. Cos’è la leadership secondo Funiciello

La storia degli orologi. “La scena ha qualcosa di cinematografico, almeno nel mio ricordo: sentendomi chiamare, mi ero voltato”. La voce proseguì, senza guardare l’uomo che si era fermato sulla soglia: “Lei ha notato che Palazzo Chigi è pieno di orologi?”. La “mostruosità della leadership”, intesa come il dono (in)naturale di occhi “simili a quelli delle mosche, che vedono in lungo e vedono in largo”, comincia qui. Un modo di osservare, cogliere, sintetizzare, diverso da quello delle altre persone. Che l’antico palazzo del governo italiano sia pieno di orologi lo avranno notato in molti, anche in passato. Ma, si può dedurre, senza trarne un’indicazione utile per la direzione di marcia. Mario Draghi invece proseguì: “Ma sono tutti rotti”. “‘Eh…’, mi limitai a dire. ‘Eh’, ripeté lui: ‘Ripariamoli’”.

Antonio Funiciello è un esperto di comunicazione, manager e saggista. Ma è soprattutto un civil servant, per i ruoli ricoperti – l’unico chiamato come capo di gabinetto da due diversi premier, Paolo Gentiloni e Mario Draghi – e per lo sguardo sempre puntato sui temi della politica, della capacità di gestione del potere e delle decisioni. “Leader per forza. Storie di leadership che attraversano i deserti” (Rizzoli, 300 pp., 18 euro), il suo ultimo saggio, è un mosaico che prova a comporre, tessera dopo tessera, nome dopo nome, il profilo multiplo della leadership. Partendo dalle impressioni e intuizioni ricavate da quei 616 giorni vissuti a fianco di Draghi, ma allargando lo spazio-tempo e le analisi. Funiciello si era già cimentato sul tema del governo, della guida pubblica, prendendolo però dalla parte per così dire opposta: il ruolo dei consiglieri, indagato e spiegato attraverso Machiavelli (“Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri: come servire il potere e salvarsi l’anima”). Stavolta la riflessione affronta direttamente il concetto di “leadership”. A guidare, un assioma centrale: “Nelle fasi storiche consolidate, con equilibri di potere definiti e stabili, ai leader è richiesto di rispecchiarsi nello spirito del tempo e dare prova delle proprie capacità di gestione. Nelle epoche di passaggio, come quella in cui viviamo, a chi si mette alla guida di popoli e nazioni è richiesto qualcosa di diverso”. Non un saggio teorico, ma costruito attraverso il racconto di sei storie esemplari: Golda Meir, Harry Truman, il conte Cavour, Abraham Lincoln, Nelson Mandela, Václav Havel, con l’aggiunta della figura biblica di Mosè: l’attraversatore del deserto (ma anche del mare) per antonomasia. Perché il “qualcosa di diverso” che le epoche di passaggio richiedono è la capacità di guidare una trasformazione verso un nuovo che ancora nessuno dei “follower” intravvede. Mosè che attraversa il Mar Rosso, per stare al mito.

Oggi “la transizione ecologica non cessa d’interrogarci, la guerra torna ad abitare l’Europa la democrazia fatica e l’autocrazia avanza”, scrive. Un indizio di risposta la fornisce il politologo James MacGregor Burns, autore di “Transforming leadership”, dice Funiciello: “Dobbiamo distinguere tra i verbi ‘cambiare’ e ‘trasformare’”. Bisogna essere trasformatori e non trasformisti. I trasformisti sono i protagonisti di un falso movimento perpetuo, “i trasformatori conducono il loro popolo, il loro paese o addirittura la parte del mondo e il tempo in cui vivono verso una dimensione non sperata”. Così, mentre gli orologi di Palazzo Chigi non segnavano il tempo né il cambiamento (ci vuole capacità trasformativa anche per accorgersene), ecco sfilare Harry Truman, prefetto esempio di una leadership che è “capacità di delega”. “Nel 1946 ebbe un’idea geniale: affidare la realizzazione e anche la titolarità del Piano all’uomo più popolare degli Stati Uniti: il generale George Marshall che aveva guidato le truppe americane nella vittoriosa guerra mondiale”. E Golda Meir, prima donna premier in occidente, e per di più di uno Stato che prima non esisteva: incarnazione del leader che “deve credere in qualcosa se pretende di ispirare gli altri”. In questo capitolo, il racconto della (doppia) intervista a “Golda” (preferiva essere chiamata così) realizzata da Oriana Fallaci è un manuale di che cosa significhi esercitare una leadership anche nei confronti dell’informazione.

Avanti e indietro nei due secoli della modernità, Funiciello incontra la capacità italiana di guida per antonomasia, Camillo di Cavour, il “pianificatore”, maestro nel gioco del domino. Cavour racconta che non c’è leadership se non è “capace di pianificare una strategia di attraversamento di lungo periodo, per la quale l’intuito è solo uno, e non il più importante, strumento di lavoro”. Lincoln lo immaginiamo sempre come un puro idealista, e invece fu capace di giocare sporco, pesante, per il suo obiettivo: che era del resto uno dei più profondamente trasformativi del suo tempo: abolire la schiavitù. Eppure per lui Funiciello non esita a evocare la categoria del “demoniaco”, attraverso lo storico Gerhard Ritter: “Quella della mezza luce crepuscolare, dell’ambiguità, dell’incerto” che è però parte essenziale della decisione politica. Quasi all’opposto, ma non certo nella grandiosa visione di realismo politico, c’è Nelson Mandela con la sua capacità, così difficile oggi, di agire sempre nel “rispetto per gli avversari”. Mandela è l’uomo capace di un patto con i suoi aguzzini pur di salvare il popolo. Il capitolo su “Madiba” inizia così: “In questo libro cerco di raccontare storie che soccorrano noi follower nel tentativo di individuare le caratteristiche principali di leader capaci di difendere, oggi, la democrazia liberale”. E la storia di Mandela “spiega plasticamente perché la demonizzazione dell’avversario, finanche del nemico, è un veleno che ammorba i più alti ideali e le migliori intenzioni politiche”.

All’opposto di queste vere leadership si collocano invece i trasformisti, che invece di muoversi da un punto a un altro, preferiscono girare su se stessi: piuttosto che trasformare la realtà, trasformano se stessi”. Al di là di giudizi moralisti che Funiciello evita, non sono adatti a questi nostri tempi insidiosi a ogni latitudine. Infine c’è un leader che non ci aspetteremmo, se non altro perché la sua nazione non è tra le grandi potenze: Vaclav Havel. Ha guadagnato il suo posto innanzitutto per la grande opposizione al regime comunista. Funiciello evoca per lui “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom, uscito solo due anni prima di quella Rivoluzione di velluto: “Qualunque cosa pensino i conservatori, le tradizioni hanno avuto un inizio che non era tradizionale. Esse ebbero un fondatore che non era né un conservatore, né un tradizionalista. I valori fondamentali che dettero forma a quella tradizione erano una sua creazione”. Havel seppe creare questo per il suo popolo, indicando un futuro ispirato alla libertà democratica e liberale. E “riuscì anche perché era un poeta e proprio alla maniera in cui i poeti creano”. Avvicinandosi all’oggi il giudizio, e l’esempio a cesellare, si fa inevitabilmente più difficile. Un po’ per la prospettiva troppo schiacciata o non ancora conclusa, un po’ per l’implicita l’impressione che leader di quella grandezza non ci siano. Non a caso l’introduzione del volume si intitola: “Nostalgia di una leadership”. In Draghi quella capacità era palese, “il processo decisionale è sempre stato in suo pieno possesso: era lui ad aprire il confronto, lui a guidarlo, lui a chiuderlo”. Perfetto l’aneddoto del viaggio in treno verso Kiev assieme a Macron e Scholz. L’idea di proporre per l’Ucraina lo status di candidata all’ingresso nell’Unione europea è di Draghi, ma come farla accettare? Per tutto il viaggio, racconta Funiciello, il premier italiano lasciò che fossero i compagni di strada a discuterne, ad appropriarsene. Così che “quando la formulò Zelensky”, erano convinti che fossero stati loro ad avere avuto l’idea.

Ha scritto Kissinger che nel corso del Novecento la leadership si è trasformata da “un modello di leadership aristocratico ed ereditario a uno borghese e meritocratico”. Ma la “nostalgia” non riguarda tanto i modelli. Riguarda piuttosto una delusione rispetto a una visone-guida dell’Europa che oggi sembra annebbiata. Non è casuale che il libro si chiuda su una “eredità che manca”, quella di Angela Merkel. La leader che ha saputo guidare e cesellare il suo paese nel rango di potenza guida, la Kanzlerin che ha immaginato un futuro europeo allargato alla Russia, si invece fermata sul limite di quel deserto invalicabile. Ma ad attraversare il deserto, un nuovo leader prima o poi dovrà provare.