In un articolo su il Mulino (ott.22) l’economista Michele Salvati ha parlato della identità del Pd e dei due compiti che insieme dovrebbero costituirla.
Invece di restare unito di fronte alle avversità e cercare una via per tenere insieme una sostenuta crescita economica e il maggior benessere (o il minor malessere) possibile per le fasce più deboli della popolazione, il Pd si è diviso tra una componente più attenta (diciamo così) alla prima parte del compito (efficienza del sistema e della crescita economica) e una “più attenta” (continuiamo a dire così) alle condizioni di disagio e sofferenza dei ceti più poveri, quelli che un tempo votavano a sinistra e oggi sono maggiormente attratti da un messaggio politico populista. Parti importanti di queste due componenti hanno formato partiti autonomi, che hanno logiche evidenti di auto-affermazione organizzativa ed entrambe cercano spazio a spese del Partito democratico, perché è molto difficile trovarlo nel campo delle destre. Questa è la disgraziata situazione nella quale si trova il “campo largo” della sinistra democratica italiana.
Ora, sembra a me evidente che i due obiettivi/compiti di cui dicevo dovrebbero essere assolti insieme e dallo stesso partito. (a) Non si può distribuire ciò che non si riesce a produrre, a meno di aumentare ulteriormente il nostro gigantesco debito pubblico, ciò che è molto difficile nel sistema economico-politico internazionale in cui siamo inseriti: di qui la necessità di misure che favoriscano la solidità e la competitività dell’apparato produttivo privato e risolvano i problemi che compromettono l’efficienza dei nostri apparati pubblici. (b) Si devono promuovere misure economiche, sociali e istituzionali che favoriscano i ceti più deboli della popolazione, anche a spese dei gruppi sociali più agiati, ciò che sarebbe molto più facile se ci fosse crescita economica. Questa è anche una tesi sostenuta nel recentissimo libro di Carlo Trigilia, La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra.
Prima di approfondire i due compiti, en passant Salvati accenna ad un altro problema del pd (quello di aver creato gruppi di potere per i quali le questioni programmatiche sono questioni di second’ordine, e dunque disposti a mutare opinione a seconda delle convenienze) che a me sembra derivi dai limiti del sistema politico-elettorale italiano dove la debolezza e l’instabilità dei governi (poco coesi e di breve durata) è effetto che discende dalla seconda parte della Costituzione. Il consociativismo del Pci nella prima Repubblica e le politiche del Pd scelte per ottenere il consenso dai propri ceti di riferimento elettorali contrastano con la fisionomia di una forza riformista che, o stando al governo o all’opposizione, dovrebbe essere fedele a un preciso programma da realizzare. Se ogni governo italiano ha vita breve davanti è chiaro che penserà sempre e solo alle elezioni più vicine. Se invece riteniamo che una capacità di decisione di lungo periodo dovrebbe essere una priorità per qualsiasi governo, allora ecco individuata la riforma che la politica italiana non è stata mai capace di fare.
Per quale ragione il pd non è riuscito a creare un clima interno che favorisse un continuo colloquio e scambio tra i sostenitori dei due obiettivi, dei due compiti che definiscono la stessa identità socialdemocratica?
Questa è la domanda chiave nel momento in cui (cosa che Salvati non poteva immaginare quando ha scritto l’articolo) i massimalisti hanno imposto la Schlein con il voto degli esterni mentre i tesserati avevano scelto Bonaccini. Ora nel pd la confusione è massima perchè la segreteria Schlein (con i suoi tutori Franceschini e Boccia) non risolve una perdurante separazione politico-organizzativa tra chi sottolinea maggiormente l’uno o l’altro dei due obiettivi. La sopravvivenza del Pd non può essere cercata, ha scritto Salvati, in una prevalenza sistematica e permanente di un obiettivo sull’altro. Va cercata in una profonda riorganizzazione interna, guidata da una chiara e condivisa identità socialdemocratica e da un’analisi approfondita delle difficoltà che un partito caratterizzato da questa identità deve affrontare nel caso italiano.
Ora a me pare che l’identità socialdemocratica di cui parla Salvati è da sempre nel Pci poi nel Pds e ora nel Pd rifiutata dall’ala massimalista, quella che non ha ancora reciso i legami con la cultura marxista-leninista. Questa identità nasce sulla rinuncia all’obiettivo di trasformazione rivoluzionaria del sistema economico-sociale, non solo per l’impossibilità di raggiungerlo, ma per una convinta adesione ai principi essenziali del liberalismo. Dopo le Brigate rosse, le spinte alla lotta armata per abbattere il sistema capitalistico in Italia si sono esaurite. Ma non si è affatto esaurito sia l’anticapitalismo che l’antiamericanismo e antiatlantismo presente da sempre nella sinistra comunista italiana.
Socialdemocrazia è la convinzione di riuscire a modificare, attraverso una continua pressione per le riforme (“il movimento è tutto”) le tendenze alla diseguaglianza insite nel capitalismo e nel liberalismo conservatore. Dunque significa adesione ai principi liberali, economia di mercato opportunamente regolata e continua spinta verso una maggiore uguaglianza di condizioni economiche, sociali e culturali. Questi principi base del Partito (social-)democratico, lo vediamo ogni giorno, si corrompono perchè l’assistenzialismo che era connotato della Prima repubblica consociativa è confluito nel bipopulismo, che prospetta soluzioni semplici per problemi complessi ma sempre gratuitamente, gravando sul debito pubblico e immaginando che l’Europa sia il nostro bancomat. L’economia di mercato, la concorrenza, la lotta ai monopoli, sembrano astrattezze per una politica italiana che neppure sulle concessioni balneari può ascoltare l’Europa piegata da lobby di ogni tipo, ed è unanime nel sacrificare i giovani a favore di pensionati protetti sia da Salvini che dalla Cgil insieme.
A me pare che i due compiti che formano l’identità socialdemocratica da una parte sono stati contrapposti da un sistema politico-elettorale non in grado di favorire coesione e durata dei governi eletti. L’utopia maggioritaria è stata il tentativo generoso di porre rimedio a tale anomalia costituzionale ma oggi dobbiamo essere essere onesti nel considerare conclusa quella stagione perchè dovremmo aver capito che non è stata la legge proporzionale la causa dell’inefficienza del sistema.
Ma detto ciò, se occorre ritornare ad una necessaria legge proporzionale, bisogna rafforzare il premier non più come primus inter pares, ma in grado di dismettere i ministri; e occorre scrivere in Costituzione che il governo ha una durata e può essere sostituito solo con una sfiducia costruttiva.
Dopo tali necessarie riforme costituzionali che rendono i Governi responsabili del programma che si impegnano, davanti agli elettori, a realizzare, si può pensare ad un partito (social)democratico in grado di portare avanti insieme i due compiti/obiettivi: sostenere la crescita economica del paese e produrre ricchezza; sostenere le fasce più deboli della popolazione italiana.
Ma, a mio parere, i due compiti possono essere sostenuti insieme se a monte si scioglie definitivamente l’ambiguità togliattiana, vale a dire se si opera una scelta di campo decisiva. Non soltanto a favore del libero mercato e della concorrenza ma schierandosi senza riserve più o meno esplicite sullo scacchiere internazionale, dalla parte dell’Occidente, dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa. L’invasione russa ai danni del vicino ha alimentato il protezionismo e la frammentazione politica in tutti i continenti, il pianeta è tornato a dividersi in blocchi intorno a Usa e Cina. E’ altrettanto chiaro che essere alleati degli Usa ha un significato diverso se il presidente degli Stati Uniti è un repubblicano alla Trump, oppure che l’Italia non potrà mai avere con gli Usa lo stesso rapporto storico che ha la Gran Bretagna, ma sgombrare il campo da tentazioni neutraliste o peggio da posizioni multipolari è necessario per stabilizzare l’Italia sul piano delle alleanze internazionali.