Recensione/ “Capitalismo” di Alberto Mingardi

E’ una parola sbagliata. Pensata sbagliata, costruita sbagliata. Ma anche molto fortunata, e il perché si capisce». Si apre così Capitalismo di Alberto Mingardi (Il Mulino, 2023, collana “parole controtempo”). L’autore è professore associato in Storia del pensiero politico presso l’Università IULM di Milano. I corsivi non sono casuali. Anzi: spiegano in maniera esemplare il pregiudizio razionalistico posto alla base di un fenomeno che non dipende da un progetto intenzionale, ma è il frutto di un intreccio di azioni individuali e del caso.

Non è un sistema ideato a tavolino

A differenza di un sistema ideato a tavolino, nota Mingardi, il capitalismo, o, se si preferisce, l’economia di mercato, è piuttosto l’esito di una serie di condizioni emerse spontaneamente che hanno dato vita a un modo di produrre e consumare molto più libero e più prospero di quelli precedenti. Per non dire, peraltro, dell’eguaglianza di consumi che esso crea: quelli che un tempo erano lussi esclusivi per élites, oggi possono essere a disposizione delle persone qualunque. Come notava l’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), «il meccanismo produttivo capitalistico» crea una generale condizione egualitaria nel poter godere di alcuni beni un tempo inimmaginabile. E che nessun potere accentrato ha mai potuto determinare (se non nel rendere tutti più poveri, come i vari esperimenti comunisti dimostrano).

Se prima della Rivoluzione industriale, infatti, vi erano sempre stati pochi a possedere capitale (un faraone, un sovrano, l’aristocrazia), con lo sviluppo industriale si aprono le porte, per chi innova, sperimenta e dimostra di possedere e mettere a frutto il dono dello spirito imprenditoriale, per arricchirsi. Il «Grande arricchimento», di cui parla la storica dell’economia Deirdre McCloskey, non è altro che un cambiamento, soprattutto di natura culturale, che vede maturare uno sguardo favorevole nei confronti della possibilità di migliorare la propria condizione, rispetto a una precedente idea di assoluta stasi e immodificabile ripetitività del mondo.

Il capitalismo è un puzzle

In tal senso, il termine capitalismo non può essere considerato un’ideologia: quest’ultima rinvia a una più o meno coerente dottrina onnicomprensiva, un «pacchetto completo», per dirla con il teorico politico australiano Kenneth Minogue (1930-2013), che serve a spiegare il mondo (semplificandolo e volgarizzandolo) e a dirigere così la propria vita sulla base del senso che essa dona. L’uomo è una creatura alla perenne ricerca di senso. Ma questo non può pervenirgli da un meccanismo di produzione e consumo: esso lascia la libertà di scelta alle persone in merito alla direzione che ciascuno vuole perseguire. Non gli si può chiedere ciò che non è costitutivamente in grado di dare: certezze, senso, orientamento. Questo appartiene a una sfera diversa, ma che, in realtà, una certa tendenza moderna, orfana del trascendente, ha cercato di portare nel mondo degli uomini, provando a costruire modelli che riportassero certezza nella vita terrena.

È così che si viene a determinare quella presunzione razionalistica che ha invaso un po’ tutte le visioni politiche. Il filosofo politico britannico Michael Oakeshott (1901-1990) di ciò ha diffusamente parlato, asserendo che il Razionalismo ha promosso un’idea di «politica della fede» volta a imporre «un’uniforme condizione di perfezione sulla condotta umana». Secondo una tale impostazione, basta seguire pedissequamente una tecnica, dei precetti, e uno schema ingegneristico per creare ricchezza, prosperità e quant’altro (il capitalismo si fa ipostasi). Al contrario, un processo libero di mercato è un puzzle, scrive Mingardi, di cui nessuna “super-mente” può ritenere di avere la chiave: il segreto risiede nell’estrema frammentazione delle conoscenze pratiche di tempo e di luogo, come scrisse Friedrich von Hayek (1899-1992), che servono ai singoli operatori economici per determinare cosa, come e quanto produrre. E questo, per nostra fortuna, depone a favore della nostra libertà.