Nella nostra Costituzione c’è l’articolo 81. Nella formulazione originaria, prevedeva che per ogni nuova spesa il legislatore indicasse chiaramente come l’avrebbe finanziata. Dopo la riforma del 2011, prescrive l’equilibrio di bilancio; non anno per anno, ma nel corso del ciclo economico: in sostanza mettere fieno in cascina nella fase espansiva per poter spendere in quella recessiva. Diciamo che non è il più fortunato degli articoli della Carta. Sostanzialmente è lettera morta. Però ne fa parte e se la nazione che siamo si definisce attraverso quel documento, il pareggio di bilancio fa parte delle regole che ci siamo dati.
Invece in queste settimane la discussione sulla revisione del patto di Stabilità è tutta un marcare il territorio. Tornano gli argomenti che nel 2018 avevano riempito la campagna elettorale più antieuropeista della storia. La moneta unica sarebbe una camicia di forza (se non proprio un complotto ordito da francesi e tedeschi ai nostri danni), le regole fiscali una minaccia per la sovranità nazionale.
Da allora il Covid 19 e la risposta congiunta data dai Paesi Ue hanno stemperato certi toni. Ma i trasferimenti, che poi sono diventati il Pnrr, rispondono alla logica di un momento eccezionale, quello della pandemia con tutte le sue conseguenze, e non possono diventare la normalità in una costruzione sovranazionale eterogenea come l’Ue e l’area euro. Se essa diventasse davvero una «unione di trasferimenti» (come l’Italia, dove ogni anno imposte pagate al Nord finanziano spesa nel Mezzogiorno), sarebbe destinata a deflagrare fra i conflitti: Nord e Sud, frugali e prodighi, litigherebbero ben di più di quanto non abbiano fatto finora.
Le regole fiscali sono inevitabili per la buona amministrazione del club europeo, perché la moneta unica ci obbliga a un minimo di disciplina condivisa. Si tratta di strumenti imperfetti: sono destinate a essere ancorate a numeri «stupidi» come diceva Romano Prodi, nel senso di arbitrari. Ma lo schema di cui si parla è più flessibile che in passato, soprattutto rispetto all’obiettivo di riduzione del debito, e prevede un target di spesa pubblica per i diversi Paesi. Un «numero» più facile da comunicare anche al grande pubblico e che definisce quanta parte dell’attività economica di un Paese è controllata e gestita dallo Stato.
In Italia le regole fiscali sono contestate da più parti perché minerebbero la sovranità nazionale. Ma non fa parte della sovranità nazionale l’articolo 81? E se i nostri governanti e parlamentari, nel corso degli anni, si sono dimostrati allegramente indifferenti rispetto al contenuto della Carta, è una minaccia che in qualche modo l’Europa ci aiuti a darvi attuazione? O forse la nazione, che non coincide col suo ceto politico, ha bisogno di un gatto che prenda i topi, indipendentemente dal passaporto?
Il sospetto è che dietro tante rivendicazioni della nostra sovranità nazionale stia solo una cosa: un pregiudizio favorevole alla spesa pubblica. Anche a prescindere da qualsiasi valutazione ponderata dei suoi effetti attesi.
A tutti piace annunciare, per esempio, un aumento dell’occupazione in ragione della maggiore spesa. Lo si fece per Quota 100. L’argomento, caro alla destra, era che mandando prima in pensione le persone si sarebbe fatto posto per nuovi lavoratori. A ogni nuovo pensionato, dovevano corrispondere tre ingressi nel mondo del lavoro. Peccato che se aumentano i pensionati attuali si fanno anche più gravosi — direttamente o indirettamente — i contributi, aumenta il costo del lavoro, diminuisce pertanto l’incentivo ad assumere.
Nella sua recente intervista a Vogue, la leader del Pd, Elly Schlein, ha detto che «1 km di pista ciclabile fatta bene può creare 4/5 posti di lavoro». Per carità, se obblighiamo chi traccia la linea a farlo con l’Uniposca magari arriviamo anche a una quarantina. Ma in che modo «posti» di questo tipo possono essere sostenibili, per usare una parola di moda?
La spesa pubblica può essere finanziata in due maniere: attraverso le tasse, inclusa la tassa da inflazione, o attraverso il debito, cioè attraverso tasse che pagheranno i nostri figli. Tertium non datur. Per quanto i costituenti, inclusi quelli più di sinistra, non potessero nemmeno immaginare un Paese nel quale la metà del prodotto viene gestita e diretta dallo Stato, avevano colto l’essenza del problema. I politici tenderanno a spendere indebitandosi, cioè lasciando il conto alle generazioni future. L’articolo 81 era un tentativo di circoscrivere il problema. Lo stesso si può dire delle regole fiscali europee. Che non minacciano la sovranità nazionale ma semmai la tutelano, se la società, per citare il padre del conservatorismo, è un patto «tra coloro che vivono, coloro che sono morti e coloro che devono ancora nascere».