Il fatto che le recenti alluvioni siano dovute anche, cosa molto probabile, agli incrementi delle temperature, e che questi ultimi siano dovuti all’attività umana e all’aumento delle emissioni, dal punto di vista delle cose da fare conta assai poco. Anzi. Se la riduzione dell’incremento delle temperature, perché di questo si parla, e non di una loro diminuzione, fosse l’unico mezzo per contrastare eventi climatici estremi saremmo messi molto molto male. Ammesso che una volontà concorde fra tutti i paesi del mondo spingesse in quella direzione, sarebbe comunque un lavoro di decenni. La partita inoltre non si gioca né in Italia con l’1 per cento delle emissioni globali né in Europa con l’8/9 per cento, ma piuttosto in Asia, Africa, America latina dove un’auspicabile crescita economica riduce la povertà, ma aumenta anche i consumi di energia di cui solo una parte minoritaria può essere prodotta con fonti rinnovabili. Il gap fra i consumi energetici di un paese dell’area Ocse e quello di un paese africano, sudamericano o asiatico, con l’eccezione di Cina e Giappone, è fra 1 a 10 e 1 a 20. Se la media pro capite americana è di 75.000 kWh quella africana è di 4.000. Il disaccoppiamento fra consumi energetici e crescita economica è possibile nei paesi avanzati, ma non in quelli di nuova industrializzazione, come l’India e buona parte dell’Africa, che continueranno ad aumentare le loro emissioni. Nel frattempo ci si condanna all’impotenza o a surreali suggerimenti come quelli del Nobel Parisi che ci invita a mettere i doppi vetri alle finestre. Placebo per la consolazione di anime incerte. La fine dei combustibili fossili è di là da venire, anzi il loro consumo continua ad aumentare e dobbiamo imparare ad adattarci. Difficile farlo davanti a un fenomeno estremo come quello in Emilia-Romagna. Ma non è che nei decenni passati non si siano verificati altri danni consistenti. Jacopo Giliberto ha ricordato su questo giornale come nella sola Romagna si siano registrati una dozzina di eventi calamitosi gravi dovuti a piogge abbondanti fra il 1945 e oggi e siano morte solo fra il 1986 e il 1990 54 persone per alluvione o frana. E nel vicino Veneto è ancora forte il ricordo dell’alluvione del Polesine (1951).
Resistere e adattarci quindi. Come? Ricorrendo all’antica sapienza e a tutte quelle opere di ingegneria idraulica che in Italia conosciamo bene. Realizzare invasi di stoccaggio delle acque che siano in grado di laminare le piene realizzando riserve di acqua che vengono buone nei periodi di siccità. Migliorare quelli esistenti sia aumentandone le dimensioni sia ripulendoli da accumuli di detriti che ne hanno limitato la capacità. Rafforzare gli argini dei fiumi, pulire gli alvei. Realizzare casse di espansione che accolgano le piene. Aumentare la permeabilità dei suoli nelle città e realizzare silos sotterranei che accumulino grosse quantità d’acqua; scolmatori che scarichino la furia di torrenti che si trasformano in fiumi che fanno saltare tombini e strade. Per farlo ci vogliono soldi ma gli spazi di bilancio italiani sono limitati. Il pensiero non può che andare ai quasi 100 miliardi buttati nel Superbonus 110. Se si voleva creare lavoro utile e fare debito buono c’era ben altro da fare. L’altro punto dolente è la governance in un paese in stato confusionale che rivendica il decentramento, ma chiama in causa il governo ogni qual volta ci sia un problema. Sedersi tutti attorno a un tavolo, animati da un sano spirito repubblicano, definire chi fa che cosa e farlo senza dare retta all’eterno partito del No, comitati di presunti ambientalisti e burocrazie uniti nella lotta, sarebbe un buon punto di partenza.