Non è un paese per insegnanti/ La disastrata condizione della scuola pubblica italiana

Se sul lavoro devi fare una fotocopia e ti viene chiesto di portare la carta da casa, non c’è dubbio: lavori nella scuola pubblica italiana. Un mondo complesso, fatto di grandi numeri (su 3 milioni di dipendenti pubblici, circa 1 – tra insegnanti, educatori e personale Ata – è impiegato nella scuola), punte di eccellenza che il mondo ci invidia e moltissimi problemi. Storici ma anche nuovi.

Tra i primi problemi che affliggono la scuola pubblica ci sono la cronica mancanza di fondi per le normali attività scolastiche e per la manutenzione ordinaria (da cui rubinetti che perdono, muri scrostati e bagni che rimangono fuori servizio per mesi) e gli stipendi bassi degli insegnanti (circa 1300 euro a inizio carriera – sotto la media Ocse – per arrivare, scatto dopo scatto, a poco più di 2mila euro a fine percorso). E poi i balletti delle supplenze per coprire i posti scoperti (dovuti in parte alla disponibilità delle cattedre, in parte al malcostume mai sradicato di chi si candida per un incarico lontano da casa e, poi, si mette in malattia), supplenze pagate con mesi di ritardo e l’inadeguatezza di molti edifici scolastici. L’80% delle scuole italiane si trova in edifici vecchi o non progettati per l’attività didattica: senza cortili, senza palestra, senza verde, senza spazi per i laboratori.

Accanto a questi, i nuovi problemi come l’aumento esponenziale delle certificazioni negli ultimi dieci anni: gli alunni con DSA, disturbi specifici dell’apprendimento, sono passati dallo 0,9 per cento del 2010 al 5,4 per cento del 2021, con relativo carico di adempimenti burocratici e incontri extra degli insegnanti con le famiglie i neuropsichiatri. E poi l’introduzione delle tecnologie digitali che, quando funzionano, vengono impiegate poco e male; la difficoltà a organizzare uscite didattiche di qualità – così importanti per gli studenti – perché troppo costose per molte famiglie o per mancanza di adulti accompagnatori (gli insegnanti non vengono retribuiti per le ore di lavoro extra); l’abolizione del tempo pieno proprio dove servirebbe di più.

La scuola primaria, per esempio, che insieme a quella dell’infanzia rappresenta il 69 per cento delle 40.658 sedi scolastiche italiane, svolge un servizio fondamentale per 2.380.000 bambini, 306.836 dei quali di cittadinanza non italiana (in Lombardia i bambini provenienti da altri Paesi oggi sono circa il venticinque per cento della totalità degli studenti) e 100.434 con disabilità, e per le loro famiglie. Può farlo grazie all’impegno quotidiano dei suoi 250.202 maestri e maestre e 127mila insegnanti di sostegno (che, complessivamente, nel 2001 rappresentavano l’8,6 per cento della totalità degli insegnanti, mentre oggi hanno superato il venti per cento). Ma in condizioni per niente facili.

«La scuola italiana è disomogenea. Ci sono situazioni valide e importanti, dove la scuola rappresenta l’unico presidio della Repubblica, altre in cui non riesce a svolgere il suo compito principale, cioè quello di attenuare le discriminazioni» esordisce Franco Lorenzoni, maestro elementare, ricercatore e formatore nel laboratorio pedagogico d’avanguardia da lui fondato a Cenci (Amelia), in Umbria. Il suo ultimo libro è: Educare controvento. Storie di maestri e maestre ribelli (Sellerio). «In questi giorni si è parlato molto di Don Milani ma forse non tutti sanno che una delle sue “fissazioni” riguardava il tempo: per imparare a parlare una lingua c’è bisogno di tempo. Ecco perché a Barbiana, caso unico, si faceva scuola anche 10-12 ore al giorno. Ebbene oggi, proprio dove ci sarebbe più bisogno di scuola, come nelle isole, in molte zone interne o al Sud, il tempo pieno non c’è, non è mai partito fin dal 1971, quando fu introdotto come grande luogo di sperimentazione. Ebbene, niente tempo pieno vuol dire un anno netto in meno di scuola. Però è anche giusto dire che la primaria rimane ancora la scuola che funziona meglio: una recente indagine sulla capacità di lettura dei bambini europei, per esempio, vede gli italiani ai primi posti. Il grande problema comincia dalle medie in poi».

I cinque anni della primaria
«Se la scuola primaria riesce a mantenere ancora buoni livelli è perché i suoi insegnanti sono i migliori che escono dalle facoltà di Scienze della formazione dove studiano pedagogia, psicologia, strategie didattiche, cooperative learning. Purtroppo questo non vale per i docenti della secondaria, medie o superiori, che non sono formati sui metodi di insegnamento né nella psicologia e si trovano a lavorare con ragazzi in una fase di crescita delicatissima» spiega Barbara Romano, ricercatrice senior in Fondazione Agnelli.

A questo si aggiunge il problema dei bassi stipendi, come ha spiegato il sociologo Gianluca Argentin nel suo saggio Gli insegnanti della scuola italiana (Il Mulino): vista la scarsa appetibilità, nella scuola secondaria spesso ci finisce chi non ha trovato lavoro da altre parti. «Discorso ancora più critico per il sostegno, perché gli insegnanti qualificati non bastano a coprire tutti i posti, così le segreterie ricorrono ai candidati che hanno spedito una MAD, Messa a disposizione, il documento che permette a chiunque abbia una qualsiasi laurea di svolgere un incarico così delicato come accompagnare il percorso di bambini con difficoltà di apprendimento di vario tipo.

Questo spiega anche perché la percentuale di precari per il sostegno è il doppio (sessanta per cento) di tutte le altre categorie». Visto il calo demografico, però, almeno non c’è più il problema delle “classi-pollaio”. Anzi, dal 2020 al 2030 nelle nostre scuole ci sarà un milione di studenti in meno. «Da un nostro studio abbiamo visto che le lassi sovraffollate persistono nei primi due anni delle superiori, quindi lo 0,5 per cento del totale, mentre in alcune zone si comincia a parlare di classi bonsai, con meno di quindici studenti.

C’è un’altra decisione da prendere: ridurre il numero degli insegnanti, causando l’ulteriore invecchiamento della popolazione docente, oppure continuare ad assumere e favorire la diffusione del tempo pieno anche alle medie, magari introducendo nuovi corsi? Per cominciare, però, occorre risolvere il mismatch che impedisce alle nostre scuole di mettere le persone giuste al posto giusto, sia per le materie curricolari sia per il sostegno. Per fare un esempio, nell’anno scolastico 2020-2021, su 85mila cattedre di ruolo disponibili, se ne sono potute assegnare solo 20mila perché tra i candidati con i requisiti per diventare di ruolo si trovavano docenti specializzati in discipline già coperte».

Dalla prima media in poi
Con la preadolescenza, età di per sé difficile, esplodono infatti tutte le carenze di un’istituzione che non riesce più a essere incisiva nella vita dei suoi alunni. «Questo dipende anche dall’atteggiamento diffuso di famiglie che non credono più alla cultura come luogo di costruzione della libertà di scelta, a differenza di quelle immigrate che avranno sì problemi linguistici, ma credono moltissimo nella scuola» continua Franco Lorenzoni. «Poi ci sono i social che offrono mille possibilità di relazione, gioco e divertimento fuori dalla scuola e fuori dal controllo dei genitori. E, infine, il problema degli spazi: a un ragazzo che entra in un edificio degradato, dove d’inverno fa freddo, manca la biblioteca e la palestra è un’aula riadattata offriamo la traduzione plastica della scarsissima considerazione che abbiamo della scuola. Gli spazi sono importantissimi, e dove lo hanno capito, come in Trentino, le scuole sono belle e organizzate secondo un pensiero pedagogico».

E le superiori? Scontano un problema di classismo culturale: ci sono quelle di serie A (vedi liceo classico) e quelle di serie B, cioè gli istituti dove la formazione tecnica e professionale non riesce a essere di alto livello. «Ma non possiamo neanche mettere tutto sulle spalle della scuola perché dove funzionano le comunità educanti, cioè i patti educativi che in un territorio uniscono la scuola, le associazioni, la Asl, le parrocchie e i centri culturali, allora si attivano circoli virtuosi preziosissimi di cuoi beneficia il territorio tutto e, naturalmente, anche la scuola». L’educazione, dunque, come tema che funziona bene solo se riguarda tutti.

I nuovi insegnanti
Intanto, per non citare la solita Finlandia, tanti altri Paesi come Canada, Regno Unito, Australia, Francia, Nuova Zelanda e Singapore, hanno reso istituzionali sistemi di formazione per insegnanti improntati a una didattica più moderna. «Quello della formazione e del reclutamento degli insegnanti è il problema di fondo della scuola italiana, perché avviene in modo disgiunto dalle capacità professionali dei candidati, oltre a essere amministrata da dirigenti sempre più manager e con meno competenze didattiche» esordisce Daniele Novara, pedagogista e autore del saggio Cambiare la scuola si può (Bur), in questi giorni in libreria con il libro Nessuno si educa da solo (Sonda). «L’alienazione tra scuola e pedagogia, intesa come scienza dell’educazione e della didattica, non è mai stata così profonda e nei fatti produce una scuola vecchia. Una scuola che, a cento anni dalla riforma Gentile, resta abbarbicata a idee arcaiche come la valutazione numerica, la lezione frontale, la campanella, il nozionismo. Resistono alcuni movimenti come quello della “scuola senza voti” e di quella “senza zaino”, che propongono forme di didattica alternativa, ma sono ancora piccole esperienze positive in un mare che procede per moto inerziale. Personalmente, poi, io sono contrarissimo a questo boom delle certificazioni, basate sull’idea che il bambino “difficile” sia un bambino “con un disturbo”. Una deriva che ha portato a una sorte di “medicalizzazione” della scuola».

Vecchia, secondo Novara, anche l’idea dell’orario di lezione quando altrove, in Europa, si parla di “tempo di lavoro”, cioè moduli flessibili e in collaborazione con gli altri docenti che spezza il dispotismo della materia. «Il modello italiano, dopo il periodo d’oro degli anni Settanta, oggi è ridotto a un reperto archeologico: come Centro psicopedagico noi lavoriamo moltissimo nelle scuole di Paesi come Paesi Bassi, Francia, Austria e Croazia, dove l’attenzione agli aspetti pedagogici è altissima. Molto meno in Italia: come mai?».