Da tempo il nostro dibattito pubblico si è specializzato in una singolare forma di analisi: la profezia che si è già autoavverata. Ultimo esempio il coro di giornalisti, analisti e intellettuali intenti a dire e scrivere ogni giorno quanto la destra abbia saputo conquistare i centri nevralgici della cultura e della comunicazione, riuscendo così a imporre le sue narrazioni e la sua egemonia. Basterebbe che la metà di loro ci risparmiasse simili analisi a posteriori almeno per due settimane, e verrebbe meno l’oggetto stesso del dibattito (che ovviamente, come qui si è già detto, non ha niente a che fare con la questione delle nomine in Rai o in qualunque altro ente pubblico: ne è anzi l’esatto contrario).
A questo strano tic se ne accompagna di solito un altro, e cioè la tendenza compulsiva ad accreditare l’apertura di cicli storici e nuove epoche a ogni vittoria elettorale, locale o nazionale, in Italia o all’estero. In tal modo le sconfitte in Grecia e Spagna segnano la crisi storica di quella sinistra socialista che la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd aveva appena rilanciato, mentre la vittoria della destra in Svezia conferma l’avanzata populista che la sconfitta di Marine Le Pen in Francia aveva sepolto un minuto prima, e così via, in un proliferare incessante di onde lunghe che evaporano prima ancora di toccare il bagnasciuga e venti impetuosi che durano meno di uno starnuto.
Ancora più curioso, però, è che tale tendenza si diffonda nell’Italia di oggi, in cui ogni banale dato di cronaca conferma, al contrario, l’estrema volatilità del consenso e del potere. Emblematico più di ogni altro è il caso di Luigi Di Maio, capo politico di quel Movimento 5 stelle che nel 2018 vince le elezioni con il trentadue per cento, da tutti i più autorevoli osservatori giudicato il più abile, il più sagace, il più sottilmente politico dei grillini, ma incapace di raggiungere l’uno per cento alle elezioni successive e pertanto oggi fuori dal Parlamento. Ma si potrebbero a buon diritto fare molti altri nomi.
Nella prematura celebrazione della grandiosa avanzata di Fratelli d’Italia, e nei tanti tentativi di spiegarne la poderosa operazione egemonica e la portentosa offensiva ideologica e culturale, c’è però qualcosa di più, c’è una sfida al principio di non contraddizione che va al di là di tutti i pur numerosi e notevoli precedenti.
La semplice evidenza empirica ci dice infatti che Fratelli d’Italia, nel passaggio dall’opposizione al governo, ha fatto esattamente quello che ha fatto la Lega quando è passata dal ruolo di oppositore del (secondo) governo Conte a quello di membro a pieno titolo del governo Draghi, e prima ancora il Movimento 5 stelle nel salto – triplo, carpiato – dal (primo) governo Conte a tutti i successivi esecutivi della legislatura.
Tutti e tre questi partiti avevano passato la legislatura precedente (2013-2018) all’opposizione del centrosinistra, su una linea politica esplicitamente anti-europeista e anti-euro, ultra-populista tanto in economia quanto su diritti civili e immigrazione, smaccatamente filo-putiniana in politica internazionale (Meloni, Salvini e grillini facevano a gara nel chiedere di rimuovere le sanzioni decise da Usa e Ue dopo l’annessione della Crimea), oltre che, va da sé, pro Brexit e pro Trump.
Se ciascuno di loro, una volta arrivato al governo, ha dovuto rimangiarsi nove decimi delle parole d’ordine dei dieci anni precedenti (Lega e Fdi si sono tenuti la propaganda anti-migranti e anti-lgbt, il M5s si è ripreso, in forme appena più ipocrite, un bel po’ del filoputinismo iniziale), ebbene, tutto potrà dirsi delle loro vittorie meno che siano state l’inizio di chissà quale rivoluzione culturale, men che meno che abbiano inaugurato nuovi cicli e nuove epoche.
Al contrario, se le parole hanno ancora un senso, una simile parabola testimonia semmai l’egemonia degli europeisti, dei riformisti e dei liberali che in questi anni, mentre altri raccoglievano firme per uscire dall’euro o per cancellare le sanzioni alla Russia, alimentare la peggiore propaganda no vax o bloccare opere pubbliche essenziali, difendevano davvero l’interesse nazionale, il futuro dell’Europa e quello dell’Italia, oltre che il principio di non contraddizione. Se proprio si vuole, si potrà dunque lodare l’astuzia, la prontezza di riflessi o il pragmatismo di Giorgia Meloni, ma certo non attribuirle storiche vittorie politiche e culturali in battaglie che Fratelli d’Italia ha perso su tutta la linea, e su cui alla fine ha semplicemente cambiato bandiera.
L’elenco delle campagne martellanti che la destra populista ha condotto all’opposizione e si poi è rimangiata al governo (o si appresta a rimangiarsi ora) potrebbe continuare ancora a lungo, dai rigassificatori al Mes, dal fisco a praticamente qualsiasi altro argomento dello scibile umano. Ed è un vero peccato che il Partito democratico, per calcoli di corto respiro o per genuino odio di sé, abbia nel frattempo ammainato in tutto o in parte molti di quei vessilli, o abbia comunque fatto mostra di vergognarsene, nel suo disperato inseguimento dei populisti grillini.
È il grande e imperdonabile paradosso dei riformisti, capaci di vincere tutte le battaglie e perdere la guerra.