Se “lo stupro di Palermo ci riguarda tutti”, come si è scritto e detto sino allo sfinimento, è anche per ragioni che vanno al di là del patriarcato, dei maschi, della società civile, del familismo amorale e del solito catalogo di colpe e responsabilità cui sempre ci si aggrappa in questi casi. La facilità con cui per quarantotto ore abbiamo preso per veri i video di alcuni dei violentatori di Palermo, dove tra balletti, faccine, cuoricini si minimizzava l’accaduto, si respingevano le accuse, ci si proclamava capri espiatori e vittime dell’odio social con l’hashtag #nonhofattonulladimale, dovrebbe farci paura quasi quanto la violenza. Non c’è più solo una cronaca risucchiata dai social. Ora c’è anche lo spettro dell’intelligenza artificiale, dei furti di identità digitale, dei software per creare deepfake alla portata di tutti che, come negli incubi di Philip K. Dick, iniziano a farsi strada nella costruzione di realtà parallele.
Come ormai ogni fatto di cronaca, come già due mesi fa con gli youtuber dello schianto di Casal Palocco, i fatti di Palermo hanno il loro corollario di video. L’ingestibilità della bolla social ha raggiunto qui punti di non ritorno: se apriamo TikTok, fra i primi video spuntano nome e profilo della ragazza violentata, la cui identità dovrebbe com’è ovvio restare ignota. Se andiamo su Telegram tutto un ripugnante mercato nero per entrare in possesso del “video dello stupro” e gente disposta a pagare parecchi soldi per vederlo. Ma per quanto abietto, il video girato da uno degli aggressori risponde ancora a logiche arcaiche e animalesche: l’umiliazione della vittima, il trofeo della violenza, l’impulso sadico, il voyeurismo da snuff movie, con la coda della sua ignobile compravendita nel deep web. Cose agghiaccianti, ma che conosciamo bene. Finito nelle mani degli inquirenti, il video si trasforma poi in prova e arma di giustizia. Diventa utile per ricostruire la dinamica dei fatti, la catena delle colpe e per rafforzare la testimonianza della ragazza.
Non è chiaro invece il terreno in cui ci trascina questo diluvio di fake, rimontaggi, manipolazioni. I deepfake dati in pasto ai social servono in genere a screditare qualcuno o a ricattarlo. Qui invece l’idea di rimontare dei vecchi video con profili fake per farci vedere un violentatore che fa ancora lo sbruffone su TikTok (tralasciando il fatto che era già sotto provvedimento restrittivo e non poteva mettersi a fare dei video) sembra quasi un test comportamentale. Un “linciaggiometro” per misurare la nostra capacità di odiare e testare la sete di vendetta popolare. Erano video fatti abbastanza bene, ma niente di particolarmente sofisticato. Eppure ci sono sembrati plausibili, hanno fatto crescere la nostra ripugnanza per gli indagati, come se non fosse già abbastanza alta, e ci sono voluti un paio di giorni per vedere le prime rettifiche sui giornali. In futuro potrebbe essere molto più complicato. Il cortocircuito di falsificazioni potrebbe coinvolgere le vittime anziché i carnefici, in modi sempre più aggrovigliati e sofisticati. Ma è qualcosa con cui dovremo familiarizzare sempre di più.