Gian Antonio Stella è un giornalista famoso, nato ad Asolo (TV) il 15/3/1953, dove il padre insegnava. Nel 2007 ha pubblicato con Sergio Rizzo La casta, che, con oltre 1,3 mil di copie vendute e ben 24 edizioni è stato un successo editoriale senza precedenti. Col senno di poi si può ben dire che l’antipolitica incarnata nel grillismo ha avuto da quel libro un impulso forte.
A fine luglio di quest’anno Stella ha ripreso sul Corriere un vecchio discorso sui diplomifici ( Il turismo dei diplomifici. Pochi giorni di frequenza e «rette» fino a 10mila euro per una maturità facile) rivelando che in Campania c’è il record degli iscritti in queste paritarie: il 90%. Stella di solito basa le sue analisi sui dati forniti da Alfredo Vinciguerra, storico direttore di “Tuttoscuola”, che ha il merito da tanti anni di svelare la scuola italiana, con inchieste e dati aggiornati, per quello che è, come avviene ormai ogni anno quando vengono diffusi i dati Invalsi. G.A. Stella ha così costretto anche Repubblica (25/8/23) ad occuparsi della faccenda campana (Scuola, la Campania felix della maturità facile: “L’invasione dei 23 mila iscritti solo al quinto anno” di Bianca De Fazio, Ilaria Venturi).
“È la Campania il bengodi della Maturità facile, la fabbrica di diplomi. Basta scegliere una delle oltre 90 scuole paritarie che all’ombra del Vesuvio, più che altrove, promettono la Maturità con appena un anno di scuola superiore. Nell’hinterland partenopeo si rilasciano diplomi che poi viaggiano in tutto il Paese, dalla Liguria al Nord Est, dall’Emilia alla Lombardia: da tutte le regioni d’Italia studenti giovani, e meno giovani, alimentano un mercato che di legale ha poco, ma ha stuoli di avvocati che garantiscono la quasi impunità grazie a cavilli legali e pronunciamenti dei Tar”.
Dove sta dunque il trucco che adoperano i diplomifici? Lo sappiamo da decenni, sta nella categoria “studenti-lavoratori”. Non bastano, per esempio, i divieti alla formazione di classi cosiddette collaterali negli istituti paritari (quelle cui vengono iscritti i diplomandi dell’ultima ora), perché più di un Tar ha stabilito che tali limiti devono cessare se gli studenti risultano anche lavoratori. E allora, come per miracolo, nella regione della disoccupazione giovanile più alta d’Europa, quegli alunni risultano, quasi sempre, appartenere alla categoria degli studenti-lavoratori.
Fatta la legge trovato l’inganno è un vecchio detto che in Italia, dove le leggi vengono prodotte in maniera incessante, è ormai un motto da scrivere sulla bandiera tricolore. Ma quel detto ormai è diventato un altro, ogni legge contiene l’inganno. Torniamo agli studenti-lavoratori (disposti a pagare sino a 15 mila euro per quel pezzo di carta ottenuto in pochi mesi di finta scuola, ma in genere ne bastano solo 5mila) per chiederci, ma chi controlla lo status? Nessuno, e quindi come abbiamo già appreso per il reddito di cittadinanza, tutta la normativa è costruita (ecco l’inganno) sulla impossibilità di effettuare i controlli. Come ha scritto Vinciguerra, “sarebbe facile fare una verifica sullo status di lavoratori. Perché non la si fa? Sarebbe la leva per bloccare il fenomeno“. Il fenomeno tipicamente italiano della legge che contiene al suo interno l’inganno (il bonus 110% è esemplare) si riassume in una legge che in apparenza sembra perseguire l’effetto A ma in realtà vuol ottenere B.
Un altro inganno, ancora pienamente operante, lo stesso Stella lo spiegò nel 2019 sugli scioperi nelle scuole. Giusto per autocitarmi, in un mio libro (La fabbrica dei voti finti, 2017, Armando editore) erano spiegati anche altri casi, dalla grande truffa delle ore di 50 minuti senza recupero per i docenti, alle assemblee sindacali fatte solo di mattina (mai nel pomeriggio) con conseguente perdita di ore di lezione, per finire con lo storico passaggio del personale Ata nei ranghi dei dipendenti statali che sarebbe dovuto avvenire (ecco il trucco) “senza oneri per lo Stato”. Inganni, bugie, truffe, giochi di prestigio, che io, in quel mio libro, li riassunsi raccontando il seguente episodio. Facendo il preside ho spesso ricevuto telefonate anonime che mi preannunciavano un “allarme bomba a scuola”. Sin dalla prima volta la mia risposta fu sempre la stessa: “Oddio. Moriremo tutti”. Se avessi, dopo la prima telefonata, innescato la procedura cautelare prevista, avrei dovuto far uscire tutti e chiamare gli artificieri per una verifica. Fatta una volta, l’avrei dovuta ripetere sempre, anche se non sono scaramantico. Il mio non è stato un rischio, diciamo che conoscevo bene il contesto, ma ho raccontato questo per dire che nelle scuole se si fanno prevalere sempre e comunque le procedure e le formalità sulla sostanza, si finisce per sfiorare il ridicolo. Allora, si era nel 2019 ( ma nel 2023 è lo stesso), pare possibile che nessuno si metta a ridere (per non piangere) se Stella poneva questa domanda sul Corsera?
Perchè chiudere le scuola se sciopera meno dell’1% dei professori? (19/11/2019). Anche se quasi nessuno aderisce, i presidi chiudono le scuole in via preventiva. Scuola, persi 2,5 milioni di lezioni perchè sciopera 1 professore su 100.
G.A. Stella riepilogava le 177 sigle sindacali nella scuola, 114 con meno di 100 iscritti, e faceva l’esempio di un anno scolastico (dal 26/10/2018 al 25/10/2019). In quell’anno gli scioperi nella scuola sono stati 12, proclamati da sigle minori come l’Unicobas (1527 iscritti), Cub scuola (979), Sgb (229), o addirittura microscopici come il Sisa o l’Unione sindacale italiana che contano 13 iscritti a testa, su oltre 1 milione di addetti dalle materne alle superiori. Nessuno sciopero ha sfiorato il 2%, tutti sotto, con partecipazioni che sfiorarono in due casi lo 0,50 e lo 0,52.
Dove sta l’inganno? Le fasi della pantomima sono tre: la proclamazione dello sciopero; l’adesione volontaria allo sciopero; la comunicazione alle famiglie. “La proclamazione di uno sciopero anche di una sigla minuscola e poco rappresentativa, viene rilanciata su tutto il circuito mediatico, nazionale e locale. Il tam tam via social fa da cassa di risonanza (spesso richiamando l’immagine del venerdì nero oppure utilizzando la frase tipica “per l’agitazione dei sindacati di base non mancheranno disagi nelle scuole”).
Ora, le leggi che regolano il diritto di sciopero “non fanno però menzione della facoltà del lavoratore di comunicare o no se intenda scioperare”. Ne parla solo un accordo del 1999. Ogni lavoratore senza comunicarlo in via preventiva può decidere all’ultimo momento di scioperare. E’ vero che in occasione di ogni sciopero i capi d’istituto invitano in forma scritta il personale a rendere comunicazione volontaria circa l’adesione allo sciopero al fine di valutare l’entità della riduzione del servizio scolastico; ma siccome tutti i dipendenti scolastici coinvolti possono decidere se avvertire o no, a loro piacimento, i presidi, i colleghi e gli alunni, se andranno o non andranno a scuola, i presidi prudentemente mettono le mani avanti avvertendo le famiglie: per sicurezza è meglio che teniate i ragazzi a casa.
E’ esattamente quello che sta avvenendo con gli allerta meteo. Nessun sindaco vuol trovarsi nella condizione di essere indagato per non aver chiuso le scuole nel caso di allarme della protezione civile. Quest’ultima non vuol correre il rischio di essere indagata per un mancato allarme (giallo, arancione e rosso). Ne consegue che lo scrupolo della protezione civile sommato allo scrupolo dei sindaci fa chiudere le scuole e un giorno qualcuno, città per città, magari farà il calcolo esatto delle lezioni perdute pur in presenza di tempo buono. Meglio la prudenza che il rischio, è chiaro, ma i giorni che si perdono per gli allerta meteo dovrebbero già bastare ad intervenire drasticamente sull’inganno delle adesioni “volontarie” per il diritto di sciopero. Chi vuol scioperare per quale ragione, morale o politica o religiosa, non lo deve dire prima? Se si stabilisse l’obbligo, quale principio etico sarebbe violato?
In realtà quindi le adesioni ad uno sciopero o ad una assemblea saranno pochissime ma le scuole sono state preventivamente chiuse. L’aspetto economico? L’adesione allo sciopero comporta la ritenuta sullo stipendio, la non comunicazione no. La seconda finisce però per avere più peso della prima a costo zero per il lavoratore, ma non per la collettività. Del resto, visto che è consentito da un accordo sindacale, perchè dar torto a chi non comunica nulla?
Venerdi 10 maggio 2019 hanno scioperato 5.767 tra docenti e personale non docente su un organico di 1.100.380. Eppure le cronache di quel giorno raccontano che in molte scuole non si è fatta lezione.
2,5 milioni di ore di lezione perse dagli studenti nel 2019 per microscioperi ai quali ha aderito sì e no l’1% del personale della scuola: oltre 60 milioni di euro il relativo costo per lo Stato. Il costo aumenta perchè è ancora impossibile far svolgere di pomeriggio le assemblee sindacali (magari a distanza) senza far perdere lezioni agli studenti di mattina. Anche in questo caso il diritto di partecipare alle assemblee per un totale annuo di 10 ore è consentito al personale scolastico attraverso una semplice adesione formale. Un dirigente scolastico per esempio conosce i nomi dei 50 docenti che hanno aderito e quindi comunica agli studenti che quel giorno le ore di lezione di quei proff non si terranno. Benissimo, ma per quale principio etico è consentita la bugia, cioè il docente che ha aderito poi può non partecipare in pratica all’assemblea? Che esempio professionale forniamo ai discenti, che le bugie sono consentite a scuola, così come gli inganni? Dove siamo, nel libro “La vita bugiarda degli adulti”, della Ferrante?
I diplomifici non si intendono cancellare, eppure basterebbe un tratto di penna, ma, come si vede, non s’intende neppure far valere quella legge che stabilisce i 200 giorni di lezione obbligatori per la validità dell’anno scolastico, tant’è che, regione per regione, occorre stabilire data di inizio e di fine. Se con scioperi e assemblee sindacali le ore di lezione si assottigliano, come abbiamo spiegato, quale educazione civica viene impartita ai giovani studenti? Che 200 giorni possono diventare 100, tanto è tutto fumoso?
Sono anni, del resto, che tanti intellettuali, economisti, studiosi della scuola, chiedono inutilmente di rovesciare il principio del valore legale del titolo di studio. Per la semplice ragione che quel valore legale non garantisce un suo valore reale. Il Gran bazar del pezzo di carta ha reso le nostre scuole nei casi peggiori diplomifici, ma anche, in tutti gli altri casi, fabbriche inutili di voti finti, dove meno ci si va, meglio è per tutti. Quello che nessuno in Italia osa dire (perchè la verità è sempre sconveniente se occorre osservare la decenza del politicamente corretto) è che nelle scuole, al contrario di quel che avviene per i lavoratori veri, dipendenti e autonomi, i quali se non lavorano non guadagnano (fatta salva la cassa integrazione), se la produzione (di apprendimenti) si ferma, i due fronti contrapposti, alunni e docenti, sono reciprocamente felici. Sta in queste occasioni di momenti di trascurabile felicità (come il titolo di un libro di Francesco Piccolo) il motivo psicologico di tutta una serie di inganni che, come quelli che abbiamo esaminato velocemente, sono non solo accettati ma invocati. Nel mio libro facevo l’esempio delle autogestioni, delle occupazioni, delle settimane dello studente, degli incidenti provocati (allagamenti, incendi, vandalismi), cattive pratiche che non provocano disagio ma al contrario piacere per le vacanze che provocano.
Insomma, il titolo di studio dovrebbe avere un valore legale se la durata degli studi (e il monte ore annuale delle materie) fossero realmente obbligatori. Per laurearti devi arrivare ad ottenere i crediti stabiliti, così ai miei tempi dovevi superare un numero prestabilito di esami, non uno di meno. Nelle scuole italiane il monte ore annuale di lezione per materia è invece scritto sulla sabbia perchè tanto alla fine ottieni qualcosa che non è reale, è solo virtuale.
Si pensi, per finire, agli studenti tedeschi che dall’età di 10 anni, a causa dei voti riportati, non possono frequentare il Gimnasyum (che consente di andare all’università). Bene, ogni studente tedesco sa che se non andrà all’università ottenendo un diploma potrà nel giro di pochi giorni ottenere un lavoro. Il valore legale di un titolo di studio è questo, noi rilasciamo invece semplici pezzi di carta completamente sganciati dalla possibilità reale di ottenere una dignitosa occupazione.