L’orazione funebre con cui Vladimir Putin, celebrando il morto, ne ha rivendicato l’assassinio – Prigozhin era un «uomo di talento», ma aveva «fatto errori» che l’hanno evidentemente perduto – appartiene alle macabre liturgie di una mafia politica, in cui tutti i “punciuti” sono legati da promesse di sangue e di vendetta. Il che conferma come sia qualcosa di meno irrazionale dell’ipocondria a tenere Putin rinserrato nei suoi bunker iper-protetti, con un corteo di fedelissimi guardiaspalle e assaggiatori, e fa presagire presto o tardi anche per lui un incidente funesto. E per presto che sia, sarebbe comunque troppo tardi.
Però, per quel che rileva alle nostre latitudini, l’ultima impresa criminale di Putin non ha svelato nulla di quel che da vent’anni era evidente e, in Italia evidentemente negato, sia sulle caratteristiche soggettive di questo ex colonnello del Kgb che ha scalato i ranghi del potere russo, sia sulle caratteristiche oggettive del suo regime e disegno politico.
Quanti in questi vent’anni hanno cantato la grandezza di Putin o ne hanno relativizzato la mostruosa bassezza hanno rappresentato l’infamia o, nel migliore dei casi, la vergognosa mediocrità di un’Italia politica, che non ha nessuna passione per il diritto e la libertà e che si acconcia a qualunque servaggio, anche a quello che camuffa nella grandeur sovietico-stalinista un’etica politica cleptocratica da capomandamento.
Si tratta di un’Italia eterna: di ieri, di oggi e purtroppo, a saggiarne bene lo spirito, di domani, che avendo pure inteso l’Alleanza Atlantica come una forma di padronato politico generoso, ma appunto padronale – un pegno della sconfitta bellica – fin dalla stagione di Yalta ha prediletto equidistanze e equivicinanze levantine e sodalizi contraddittori e variabili.
Visto che in politica spesso si va dal male al peggio e dalla tragedia alla farsa, se nella stagione andreottiana l’ostpolitik italiana aveva la postura cinica dell’andreottiano «non mi impiccio», in quella successiva ha preso la forma dell’impiccio strategico degli aspiranti domatori e garanti dell’orso russo al guinzaglio (Romano Prodi, Massimo D’Alema e giù giù fino a Matteo Renzi e Paolo Gentiloni) o del vero e proprio comparaggio politico col corleonese del Cremlino e con i capataz della mafia stragista moscovita (Silvio Berlusconi e al seguito tutta la destra fascio-leghista). Per non parlare dell’ostpolitik grillina e contiana, con la trasformazione dell’Italia, Covid aiutando, nella vetrina delle scorrerie paramilitari russe in territorio Nato.
Questa persuasione bipartisan che gli affari internazionali siano qualcosa che ha più a che fare con la senseria che con la politica e che il realismo non possa che essere declinato in senso affaristico, predatorio o parassitario con la Russia di Putin ha trovato un banco di prova paradigmatico e fatale. Non sono certo stati solo gli italiani a credere o a fare finta di credere che quelle di Putin fossero intemperanze giustificate dalla difficoltà dell’impresa di tenere in piedi e unita una Russia economicamente fallita e civilmente degradata.
Ma certamente in Italia è stata unanime e totale (con la sola eccezione del pazzo del villaggio politico, Marco Pannella) la rimozione e la negazione della natura profonda e peraltro pure dichiarata del disegno putiniano, espansionistico, terroristico e nichilistico quanto quello wahabita, ma strategicamente molto più pericoloso, perché annidato nelle viscere e nel subconscio politico di larga parte delle masse europee, addestrate a pensare con una guerra cognitiva di lungo corso e perfettamente ingegnerizzata, non solo sui canali digitali, che la democrazia e la globalizzazione politica occidentale fossero un inganno, un affare in perdita, una truffa del deep state globale e che Putin fosse l’interprete di una resistenza più che giustificata all’andazzo delle cose.
In Italia i pupazzi putiniani hanno fatto e fanno i presidenti della Rai e delle Camere, i Ministri e i direttori dei giornali, gli anchorman e gli ospiti di ordinanza di qualunque talk show e il 24 febbraio 2022 non ha cambiato niente. Infatti nulla poteva cambiare in un Paese in cui l’antiputinismo obbligato del 25 febbraio – Volodymyr Zelensky non è scappato, gli ucraini si sono splendidamente difesi, gli Stati Uniti li hanno sostenuti e l’Europa è andata a rimorchio, anche grazie a uno straordinario Mario Draghi – non è stato dettato da un cambiamento di opinioni, ma di circostanze e di convenienze, in attesa di tempi migliori.
Tempi che arriveranno quando l’opinione pubblica si sarà vieppiù stancata di questa guerra, dell’idea di pagarla chissà quanto e per quanto e di un eroismo ucraino letteralmente incomprensibile, se non come effetto dell’amore per la libertà, per lo stato di diritto e per la dignità umana e quindi incompreso da chi è stato scientificamente istruito a disprezzare questi principi come fregnacce prima da decenni di agnosticismo politico e poi di maleducazione antipolitica.
Il putinismo italiano è in sonno, ma pronto a risvegliarsi, più stupido e cattivo che mai, quando potrà sperare che, contro ogni ragionevolezza e decenza, questa guerra si chiuda come una parentesi e uno sfortunato malinteso e si torni all’antico regime di corruzione politica e economica con Mosca. Magari con una bella cerimonia di riconciliazione officiata dal portavoce di Putin, il caro Dmitry Peskov, che tutt’altro che incredibilmente tiene ancora appuntate al bavero le insegne di Commendatore al Merito della Repubblica italiana, che nessuno gli ha mai tolto, chissà perché.