Il centro. Tutti ne parlano nessuno sa cosa sia, ognuno lo interpreta a modo suo. Per tanti anni durante la Prima Repubblica c’erano i partiti di centro che sommariamente possiamo indicare nella Democrazia cristiana, nel Partito liberale, nel Partito repubblicano e nel Partito socialdemocratico. All’alba della Seconda Repubblica un geniale venditore di tutto (anche di sigle) ha deciso che in Italia avrebbero dovuto esserci due schieramenti in linea con l’emergere di un sistema elettorale maggioritario e che si sarebbero dovuti chiamare centrodestra e centrosinistra. Il signore in questione, ovviamente, si chiamava Silvio Berlusconi. Trovata vincente per lui, che ha caratterizzato un trentennio con il berlusconismo e di riflesso con l’antiberlusconismo, ma certamente non positiva per il nostro paese, che in nome di un pot-pourri indistinto, e sinceramente insignificante, si è distaccato dalle grandi famiglie politiche europee. In Europa, se vogliamo tralasciare gli estremi di destra e di sinistra, sono infatti presenti, pressoché ovunque, un partito popolare generalmente di destra moderata (in qualche caso anche populista) e un partito socialista spesso di stampo riformista (in alcuni casi più massimalista). Altrettanto presente in pressoché tutti i 27 paesi europei (con esclusione dell’Italia) una forza di centro in linea di massima con spiccati connotati liberali. Potremmo fare l’elenco di questi paesi, ma per brevità sorvoliamo. Tanto premesso, mi sono più volte chiesto perché anche nella cosiddetta Seconda Repubblica sopravvivono stereotipi quali centrodestra e centrosinistra e soprattutto perché in quasi tutti i leader politici che vorrebbero rifare un centro alligna il refrain “popolare, riformista e liberale” che, alla luce di quanto sopra, non vuol dire assolutamente nulla e logicamente non dovrebbe essere nelle loro corde e anche nel loro interesse. Me lo sono chiesto e mi sono dato una risposta.
Nei leader del “centro potenziale” alberga ancora il riflesso condizionato di quest’ultimo trentennio. Molti di loro provengono da partiti che una volta si sarebbero detti di massa (vedi il Pd), partiti che hanno sfiorato il 30 per cemto in sede elettorale e, in qualche occasione, avvicinato il 40 per cento. Questi leader oggi spesso a capo di partiti che gravitano intorno al 3 per cento non riescono a spogliarsi da quella condizione “maggioritarista”. Dunque ripetono come una litania quel che nulla vuol dire, appunto “popolare, riformista e liberale”, in quanto hanno in testa, nel profondo della loro testa, il baco del maggioritario, o di qua o di là. C’è un meraviglioso mondo che non vuole stare né di qua e di là e che, se sente invocare indistinte e putrefacenti macedonie, continua tranquillamente a stare né di qua né di là, cioè si rifugia nell’astensione. Ci vuole molto a comprendere ciò? Evidentemente sì! Dirsi con Vestager, con Rutte, con Macron, con Lindner, con Kaja Kallas e con tanti altri leader liberali europei, vuol dire non definirsi né popolari, né riformisti (nell’accezione che questo termine ha acquisito, soprattutto in Italia, di socialismo riformista). Incomprensibile questo riflesso pavloviano ove si consideri che il gruppo dei liberali al Parlamento europeo supera i 100 membri ed è tutt’altro che marginale, anzi è stato e sarà ancora centrale per gli equilibri politico-parlamentari in Europa. C’è il partito che da più di quarant’anni rappresenta i liberali in Europa e si chiama Alde, c’è il gruppo parlamentare al Pe che si chiama Renew, nessun gruppo o partito europeo si definisce “popolare, riformista e liberale”. Popolare, o riformista socialista, o liberale.
Ecco quando i leader dei partiti che meritoriamente pensano di rappresentare il centro in Italia riusciranno a superare questo retaggio del trentennio berlusconiano saremo tutti più europei, ma soprattutto potrà esserci un vero centro liberale in Italia. Sono il solo a pensarla così in Italia? Probabilmente siamo in pochi, ma in buona compagnia. La compagnia è quella di Benedetto Croce, allorché senza tanti giri di parole escludeva che un Partito liberale potesse mai definirsi “di destra” o “di sinistra”. Semmai, partito “di centro”. Anzi, dice, l’unico che sia possibile definire di centro. Ma è chiaro che si tratta di un centro mobile, mobilissimo, come argomenta, di volta in volta rivolto verso destra o verso sinistra, cioè – spiega lo stesso Croce – con atti, a seconda delle esigenze, di progresso, anche spinto, o di conservazione. Ecco, Croce era evidentemente un pre-berlusconiano, io senza lontanamente volermi paragonare a lui sono un post-berlusconiano. Speriamo lo siano anche coloro che ambiscono a rappresentare il centro liberale.