Siamo abituati a considerare la tenacia come l’esatto opposto della rinuncia. D’altra parte, o si persevera o si rinuncia. Non si possono fare entrambe le cose contemporaneamente e nella battaglia tra i due comportamenti il secondo ha evidentemente la peggio. Mentre la perseveranza è considerata una virtù, l’atteggiamento di chi molla il colpo, di chi abbandona, è visto come vizioso. Il consiglio elargito da tutti coloro che sono assurti a leggenda per il successo raggiunto si riduce spesso a un messaggio di questo tipo: insisti, applicati, persevera e avrai risultati. Per citare Thomas Edison: «La nostra più grande debolezza sta nel rinunciare. Il metodo più sicuro per avere successo è sempre quello di provare una volta ancora». Un sentimento cui ha fatto eco, a oltre un secolo di distanza, una leggenda del calcio femminile come Abby Wambach: «Per non mollare mai, indipendentemente dalle circostanze che devi affrontare, non basta soltanto essere competitivi: servono anche capacità». Consigli e stimoli di questo tipo sono attribuiti ad altri grandi campioni e allenatori sportivi, come Babe Ruth, Vince Lombardi, Bear Bryant, Jack Nicklaus, Mike Ditka, Walter Payton, Joe Montana e Billie Jean King. Troverete citazioni quasi identiche da parte di imprenditori aziendali assurti al mito nel corso dei secoli, da Conrad Hilton a Ted Turner fino a Richard Branson. Tutte queste celebrità, e innumerevoli altre, marciano compatte scandendo una qualche variazione del motto: «Un vincente non molla mai/Chi si arrende è perduto».
È raro trovare citazioni popolari che esaltino la scelta di mollare la presa, a eccezione di quella attribuita a W.C. Fields: «Se non riesci al primo tentativo, prova e riprova. Dopo di che, molla. Non ha senso fissarsi stupidamente». Fields non era certo un modello, visto che i suoi personaggi amavano bere, odiavano i bambini e i cani e tiravano avanti vivendo ai margini della società. Non si tratta dunque di un gran contrappeso… e, d’altra parte, quella frase non è neppure di Fields, in realtà!
Per definizione, chiunque abbia avuto successo in qualcosa ha dovuto perseverare. È una constatazione di fatto, sempre vera con il senno di poi. Ma non significa che sia vero il contrario, ovvero che se perseverate in qualcosa alla fine avrete successo.
In prospettiva, non è vero e non è nemmeno un buon consiglio. In effetti, a volte è addirittura distruttivo.
Se siete stonati, non importa per quanto tempo vi impegnerete: non diventerete mai Adele. Se a cinquant’anni vi mettete in testa di andare alle Olimpiadi come ginnasti, non ci sarà impegno o determinazione in grado di aiutarvi. Pensarla diversamente è assurdo come leggere uno di quegli articoli sulle abitudini dei miliardari e, una volta appreso che si svegliano prima delle quattro del mattino, immaginare che alzarvi allo stesso orario farà di voi dei miliardari. Non dobbiamo cadere nell’errore a cui ci inducono questi aforismi, ovvero confondere il senno di poi con la lungimiranza.
Le persone perseverano sempre nelle cose in cui non riescono granché, a volte sulla base della convinzione che perseverare abbastanza a lungo porterà al successo. A volte perseverano perché un vincente non molla mai. In un modo o nell’altro, sono in molti a battere la testa contro il muro e a soffrire pensando che ci sia qualcosa di sbagliato in loro, piuttosto che nel consiglio.
Il successo non sta nel perseverare in qualcosa. Sta nel saper scegliere la cosa giusta su cui perseverare e lasciar perdere il resto.
Quando il mondo vi dice di desistere è sempre possibile, ovviamente, che voi vediate qualcosa che il mondo non vede, e che questo vi induca a persistere giustamente anche là dove altri al posto vostro abbandonerebbero la causa. Ma quando il mondo vi urla a squarciagola di lasciar perdere e voi vi rifiutate di dargli ascolto, la tenacia può diventare stoltezza.
Troppo spesso ci rifiutiamo di ascoltare. Questo può essere in parte dovuto al fatto che mollare ha una connotazione negativa quasi universale. Se qualcuno vi prendesse per rinunciatari, lo considerereste un complimento? La risposta è ovvia. Lasciar perdere significa fallire, capitolare, darsi per vinti. Denota mancanza di carattere. Chi rinuncia è un perdente (tranne nel caso, naturalmente, in cui la rinuncia riguardi qualcosa di palesemente negativo come il fumo, l’alcol, la droga o una relazione violenta).
Anche il linguaggio mostra le sue preferenze per la determinazione riservando, a chiunque mostri di non mollare, termini positivi come proattivo, costante, incrollabile, risoluto, coraggioso, audace, impavido. Di una persona così, diciamo che ha gli attributi, che ha fegato, che ha spina dorsale, tempra, tenacia o persistenza. Con la stessa rapidità vengono in mente i termini negativi per riferirsi a quelli che si arrendono, termini che racchiudono tutti l’idea che costoro siano dei falliti che non meritano la nostra ammirazione. Recalcitranti, smidollati, disfattisti, disertori, rinunciatari, scansafatiche, pappamolla e inetti.
Uno degli indizi più evidenti di come i favori della lingua siano tutti per la tenacia è che tra i suoi sinonimi troviamo termini come coraggio, audacia e persino eroismo. Quando pensiamo alla perseveranza, in particolare di fronte al pericolo, immaginiamo l’eroe che davanti a una minaccia mortale affronta l’abisso e prosegue là dove gli altri si arrenderebbero. Allo stesso modo, chiunque desista è un codardo. In un mondo in cui la perseveranza è considerata quasi universalmente come la strada per l’onore e il successo, la tenacia è vista come il personaggio protagonista. La resa, invece, è l’antagonista (un ostacolo da superare) o, più spesso, una comparsa (uno di quei personaggi che nei titoli di coda figurano come «Terzo scagnozzo» o «Soldato vigliacco»).