(12/10/23) Sembra largamente rappresentativa la sfilata di giovani che hanno a cuore la causa palestinese, e però poi invocano anche le fiamme per Tel Aviv e buttano lì un endorsement per Hamas, anche nel giorno stesso in cui arrivano le immagini che arrivano. Però lo sconforto non è vedere collettivi e studenti universitari che spiegano le ragioni di Hamas (oggettivamente: chi si stupisce?). Come già con l’Ucraina, lo sconforto è trovare pressoché il vuoto e il nulla dall’altra parte. Nessun gruppo studentesco pare infatti abbia a cuore il destino di Israele, delle società aperte, delle democrazie occidentali e dei loro valori. Nessun collettivo che scende in piazza mosso anche solo da empatia per i tanti coetanei trucidati a sangue freddo mentre ballavano nel deserto facendo video su TikTok (né si hanno notizie di femministe intersezionali quantomeno amareggiate per ragazze esposte nude a sputi, calci, insulti della folla inferocita e poi bruciate vive). Insomma è come se odiassero sé stessi, prima ancora che Israele o l’Occidente.
L’antisemitismo qui forse c’entra poco e arriva casomai come effetto collaterale. Da noi collettivi e gruppi studenteschi strizzano l’occhio a Hamas passando dalle vie maestre dell’antiamericanismo, dell’antioccidentalismo, dell’anticapitalismo. Un anticapitalismo naturale, come l’aria, l’acqua, mai messo in discussione, anzi coltivato, venerato, assimilato come fondamentalismo religioso (non abbiamo le scuole coraniche, ma l’educazione anticapitalista funziona bene anche senza pregare e inginocchiarsi verso la Mecca della Rivoluzione, spacciandosi anche meglio come “spirito critico”). Lo si vede anche con gli slogan che si esibiscono almeno qui da noi dove, non facendo figli, siamo gerontocratici anche nella protesta radicale: roba vecchissima, lessico vintage, parole d’ordine della galassia marxista-leninista-operaista, discorsi anni Settanta appiccicati poi a forza sopra il groviglio del medio oriente, blaterando di padroni, sfruttati, rivoluzione, resistenza (perché il sonno dell’antifascismo liberale e antitotalitario genera mostri).
Ma il problema è un po’ più grande di così. A cominciare da Harvard, gli studenti delle più prestigiose università occidentali prendono parola solo contro Israele, o finiscono per giustificare Hamas, la cui missione, va ricordato, non è “due popoli, due stati”, ma la cancellazione degli ebrei dal medio oriente e possibilmente dalla faccia della terra (“Israele scomparirà”, diceva Ahmadineijad, “deve essere cancellato dalle carte geografiche”). Prima di prendercela con i giovani occidentali, o dargli una pacca sulla spalla (so’ ragazzi, poi crescono), dovremmo anche domandarci: quante possibilità ha oggi uno studente universitario di scienze umane e sociali di imbattersi in pensatori liberali come Popper, Aron, Mises, Von Hayek, Berlin, Sergio Ricossa o Ayn Rand e tutti gli altri considerati sempre marginali, eretici o più sbrigativamente “de destra”, come Pino Insegno del pensiero occidentale? (tenendo conto poi che trent’anni fa era anche peggio). Quante possibilità ha invece di imbattersi nelle supercazzole sul “neolibberismo selvaggio” e in più affascinanti e ubriacanti riletture falliche dell’occidente che, inteso come America-Israele, ha imposto il binarismo di genere?
Ne “La società aperta e i suoi nemici” ci sarebbe tutto quello che c’è da sapere per capire da che parte stare, specie ora che i nemici della società aperta sono tanti, tantissimi. Ma i collettivi non leggono Popper, come non lo leggono i loro professori a scuola, come non lo leggono a Harvard, preferendogli da quarant’anni almeno Foucault, Derrida, i postcolonial studies e qualsiasi altra cosa metta a ferro e fuoco parole come “mercato”, “profitto”, “progresso”, “occidente”, “individuo” (che diventa casomai una “soggettività”). Quanto meno per questioni di equilibrio si potrebbero insegnare, insieme alla vergogna e alla colpa di essere occidentali, quelle due o tre ideuzze che nutrono la sopravvivenza della nostra libertà e la magnificenza della libertà individuale. Quella libertà, come diceva Popper, che “rende possibile l’unica forma di convivenza degna dell’uomo” e che “è più importante dell’uguaglianza, perché se va perduta la libertà, tra non liberi non c’è nemmeno l’uguaglianza”. Ma Popper, me ne rendo conto, è roba da boomer.