La distanza fra gli esponenti più in vista del mondo ebraico e la Chiesa cattolica si fa sempre più ampia man mano che passano i giorni dal massacro del 7 ottobre. In una lettera a Repubblica, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha scritto che “le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente. Difficile dire che la sconfitta del nazismo, ad esempio, sia stata una sconfitta per tutti. Qualche volta qualcuno deve essere sconfitto, solo lui e per sempre”. Ancora, “la preghiera è un’arma anche se non spara, e la sua moralità dipende dal suo contenuto. È bello vedere moltitudini che si raccolgono a chiedere la pace, che guardano ai termini dei conflitti, che vogliono la fine delle sofferenze, ma bisogna valutare se guardare oltre non significa appiattire le differenze e fare tutti uguali”.
Insomma, “la preghiera può diventare un alibi per scaricarsi la coscienza, per stabilire un’equidistanza inopportuna, per cancellare le valutazioni morali”. Era stato Papa Francesco a dire che “la guerra è sempre una sconfitta”, domenica scorsa al termine dell’Angelus. Oggi, dal mondo ebraico, e da uno dei suoi massimi esponenti in Italia, arriva la presa di distanza, netta nei toni e chiara nella sostanza: la guerra è un brutto affare, ma a volte è bene che uno perda e l’altro vinca. Ed è meglio che a perdere sia chi macella ragazzi, vecchi e bambini in mezzo al deserto o in un kibbutz. La posizione della Chiesa è diversa: politicamente ribadisce (anche ieri l’ha fatto il cardinale Parolin) la necessità di dar corso ai “due stati”, spiritualmente condanna il massacro di Hamas e manifesta vicinanza ai civili di Gaza, riunendosi nella basilica vaticana (ieri pomeriggio), con il Papa a presiedere la preghiera per la pace. Nel mezzo, una relazione con i “fratelli maggiori” che continua a essere complicata.