Davvero spendiamo troppo poco? Il totale delle spese correnti delle amministrazioni pubbliche ammonta, in Italia, a 941 miliardi (2022): è un valore di poco inferiore alla metà del prodotto interno lordo. La supera, se aggiungiamo le spese in conto capitale e le spese per interessi sul debito. La Commissione europea ci invita alla prudenza sui conti. Nel dibattito italiano, però, prevalgono le voci che ritengono la finanziaria del governo Meloni «insufficiente»: la accusano di non sostenere questa o quella iniziativa con le risorse «dovute». Gli unici elementi di dissenso vengono da chi pure sarebbe per più spesa pubblica, ma a un altro livello di governo, cioè a Bruxelles.
Ogni tanto è necessario ricordare le cose ovvie. La legge di bilancio non incide sul modo in cui lo Stato gestisce il complesso delle sue attività. Ciò che fa è aggiungere (o togliere, ma questo avviene più di rado) risorse, sulle quali si litiga ferocemente come se esse fossero la spesa pubblica. Ne sono una modestissima frazione: i miliardi (sempre troppo pochi) che il governo mette o non mette su scuola o sanità si sommano al livello di finanziamento di quei servizi raggiunto lo scorso anno, e perciò considerato irrinunciabile.
Da ministro dell’economia, Tommaso Padoa-Schioppa provò a proporre un principio diverso, quello dello zero budget. Anziché partire ogni anno dalla spesa pubblica che c’è, e trovare il modo di aggiungerne un altro po’, proviamo a ragionare sulle necessità. Non su quanto vogliamo aggiungere, ma su come, quanto e perché vogliamo finanziare le scuole elementari ovvero le detrazioni fiscali per i proprietari di gatti. Più facile a dirsi che a farsi, e infatti non si fece. La questione però è logica, prima che contabile. Che lo Stato debba fare delle cose, non significa che debba presumere che l’unico modo per farle è aumentarne il finanziamento ogni anno.
I fautori di maggiori spese hanno sempre ottime ragioni. Le circostanze cambiano continuamente e al loro mutare spuntano esigenze nuove, talora impreviste. Nessuno contesta il carattere spiazzante del cambiamento. Però è curioso che, quali che siano i fatti, l’opinione dominante rimanga sempre quella: aumentiamo la spesa.
La vera questione riguarda il criterio per fare le fette della torta. Lo Stato non può essere «imprenditore» per la semplice ragione che l’imprenditore rischia del suo, può avere grandi guadagni ma anche chiudere bottega. La sua attività è disciplinata dalla possibilità di fallire: alcuni progetti vengono scartati, altri realizzati ma con scarso successo, relativamente pochi centrano il bersaglio. Conta il merito, ma anche, come sempre, il caso. Il fallimento è una tragedia per le persone coinvolte. La società però non ha ancora trovato uno strumento migliore per spingere all’uso responsabile delle risorse.
La politica funziona in modo diverso. In molti recentemente hanno biasimato il fatto che la Germania abbia utilizzato i suoi fondi di NextGenerationEU per abbattere la bolletta energetica delle imprese. I cattivi tedeschi (da alcuni anni, i maggiori indiziati per il nostro declino) sussidiano le loro aziende, spingono le nostre fuori mercato, a che serve l’Europa? Si dimentica che il Pnrr italiano è grande quasi sette volte quello tedesco, al netto del fondo complementare, in valore assoluto. Rispetto al Pil, il Pnrr tedesco vale meno dell’1%, quello italiano oltre il 10%. La differenza è che in un caso l’industria è un attore politicamente forte, che è riuscito a convincere il governo a concentrare risorse a suo vantaggio. Nell’altro, le esigenze degli industriali sono state dosate per consentire a diversi gruppi di interesse di spartirsi tutti insieme il bottino.
Sono le stesse dinamiche che ritroviamo in ogni sessione di bilancio. Se è a Roma che si decide quali strade costruire sia in Liguria che in Molise, i fautori dell’una e dell’altra nuova spesa si presenteranno col coltello fra i denti, facendo pesare il proprio consenso. L’unica mediazione di solito coincide con l’evitare di scegliere, col fare tutto, specialmente se si può finanziare a debito.
Sarebbe diverso se fossero liguri e molisani a scegliere quali progetti realizzare, dovendo pagare il conto di tasca propria. Ci sono senz’altro spese astrattamente auspicabili, che tuttavia persone prudenti preferirebbero non fare, stimando che il beneficio non valga il costo.
Il problema della spesa pubblica è la sostanziale irresponsabilità di chi la decide. Per anni abbiamo discusso di come rendere più responsabili questi processi (per esempio con il federalismo fiscale), che poi significa far capire ai cittadini che delle loro tasse stiamo parlando. Oggi non lo facciamo più. E il sospetto è che chi desidera spostare parte del potere di decidere a Bruxelles voglia solo separare ancora di più i contribuenti dal loro denaro.