(2014.frasco) Il pd (adesso con Schlein così stremato alla ricerca continua di “identità” e del solito “nemico“) lo si capisce bene esaminando le reazioni ad alcuni successi commerciali decretati dal pubblico. Essi sono sempre simboli discorsivi da utilizzare nella disputa per l’auto-definizione dell’Italia e degli italiani, che da noi va avanti almeno dai tempi di Massimo D’Azeglio.
Andrea Minuz, lo riporto sotto, spiegò molto bene 10 anni fa cosa successe quando il mercato decretò il successo di Checco Zalone, cioè di un eccesso di stupidità per i critici di sinistra. Essi decretarono: «Zalone è sintomatico del Paese in cui viviamo».
Ma anche nel 2023 quando l’inaspettato successo al botteghino è toccato all’anti Zalone, il film “di impegno culturale e civile” C’è ancora domani di Paola Cortellesi, le reazioni della sinistra si sono basate sullo stesso presupposto nostalgico che è il seguente: La sinistra è cultura. La cultura in Italia è lo Stato. La Sinistra è lo Stato.
La sinistra ormai in Italia è sinonimo di “Stato”: l’elettore la percepisce come una forza di non opposizione, sia quando sta al governo sia quando non ci sta.
Ne consegue che tutti gli ammiratori di Schlein aspirano che ri-diventi una forza di opposizione. Che poi è la stessa, fateci caso, cultura di Salvini e di Conte, il tentativo di essere nello stesso momento forza di lotta e di governo. Per il pd essere forza di opposizione significherebbe dunque riconciliarsi con la sua tradizione, quando si opponeva a Scelba, a Tambroni, alla dc, a Craxi, a Berlusconi. Esattamente, (ecco il campo largo, perchè la minaccia democratica si scongiura con una unione di tutte le forze contro), come fa l’avvocato del popolo con la pochette, “graduidamende”.
Si tratta di opporsi al pericolo fascista di Meloni riscoprendo il dirittismo ma anche gli ideali, come la partecipazione democratica delle donne alla vita dello Stato. La sindrome Checco Zalone è dunque la stessa cosa del suo esatto contrario, la sindrome Paola Cortellesi. Mentre Cortellesi dimostra “quel che eravamo”, Zalone spiega “quel che siamo diventati”. Sindrome è la paura di uscire dalla vocazione minoritaria, di abbandonare la diversità morettiana così ben spiegata ne “Il sol dell’avvenire”. Dunque, opposizione, la sinistra italiana può essere solo e sempre opposizione. Questa sarebbe per Schlein e fedeli, la sua identità italiana.
Ecco perchè Minuz inserisce come incipit del suo libro una frase di Paolo Sorrentino (La grande bellezza) ” Che cosa avete contro la nostalgia, eh? E’ l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro. L’unico”.
(2014 ANDREA MINUZ) Nel suo recente libro Le catene della sinistra, Claudio Cerasa la chiama «sindrome Checco Zalone». Più o meno la paura di uscire dalla vocazione minoritaria, di lasciarsi alle spalle la diversità morettiana. Non tanto per il desiderio di essere come tutti, ma per provare a governare il Paese. Cerasa riprende anche la lettura di Giovanni Orsina, autore di un volume formidabile, Il berlusconismo nella storia d’Italia. La tesi di Orsina è semplice, eppure decisiva:
«La sinistra si è caricata sulle spalle un numero così elevato di pezzi dell’apparato statale da essere diventata sinonimo della parola “Stato”. E così, anche se non governa, l’elettore la percepisce come una forza non d’opposizione. E, rappresentando in tutto e per tutto lo Stato, è come se si trovasse sempre al governo».
Si può aggiungere che, come sinonimo di Stato, la sinistra è (era?) vista come una forza di conservazione, un freno vecchio. Una cultura politica con lo sguardo rivolto all’indietro, come molti dei film che abbiamo discusso sin qui. Il cinema italiano degli ultimi trent’anni, un cinema imparentato da cima a fondo con lo Stato, ha svolto un ruolo non indifferente nella costruzione di questa percezione. La sinistra è cultura. La cultura in Italia è lo Stato. La Sinistra è lo Stato. E poi c’è Checco Zalone.
La sinistra è cultura. La cultura in Italia è lo Stato. La Sinistra è lo Stato. E poi c’è Checco Zalone.
Emarginato dall’«interesse culturale», categoria grazie alla quale si accede al finanziamento statale dei film, ma legittimato dagli incassi. Cioè da quella cosa terribile chiamata «mercato» e «gusto del pubblico».
Ora, a quelli che «Zalone è-un-abisso-di-stupidità» basterebbe già indicare la locandina di Sole a catinelle. I padri seduti sulle spalle dei figli come sintesi visiva di una storia che a suo modo parla della «crisi» del nostro Paese. Basterebbe dire che il sofferente regista italiano col turbante in testa che gira Eutanasia mon amour e rifà il ciak perché nella scena «sente puzza di borghesia» un bel po’ se lo meritano.
(tratto da Quando c’eravamo noi, di Andrea Minuz, Rubbettino ed.,2014)