Prima di accusare le Sezioni Unite della Cassazione di ambiguità corriva col potere nero della Nazione o (ci si potrebbe pure arrivare, con un po’ di fantasia) di concorso esterno in organizzazione neo-fascista, sarebbe meglio evitare di derivare il giudizio sulla loro decisione, relativa all’irrilevanza penale del saluto romano “commemorativo”, dalla soddisfazione con cui è stata accolta dal reduce sanbabilino e collezionista di cimeli del Ventennio, che siede sulla poltrona più alta di Palazzo Madama. Quello di piacere o spiacere a Ignazio La Russa, con tutte le riserve sui suoi piaceri e dispiaceri, non è ancora un canone di verità politica, né di fondatezza giuridica.
La Cassazione ha risolto in modo razionale e non furbescamente salomonico una questione che interessa certo i fascisti, ma dovrebbe interrogare in primo luogo gli antifascisti, almeno quelli liberali, perchè riguarda i limiti del ricorso allo strumento penale laddove le condotte incriminate, per quanto disdicevoli e riprovevoli, non rechino una concreta offesa a un bene giuridico protetto. E non dovrebbe essere così difficile riconoscere la differenza di offensività tra la commemorazione funebre di un camerata con la necrofila liturgia del “presente” e l’esibizione di simboli e gestualità fasciste – dalle camicie nere al saluto romano – in una minacciosa manifestazione politica.
Se in questo secondo caso possono ravvisarsi sia le violazioni dei divieti della legge Scelba (e della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione) sulla ricostituzione del partito fascista, sia quelli della legge Mancino, sull’incitamento all’odio e alla violenza, nel primo caso è decisamente difficile dimostrare l’esistenza dei presupposti minimi per l’azione penale, proprio perché in Italia non c’è ancora – e speriamo mai ci sia – il reato di oltraggio alla memoria.
Peraltro, il tentativo di arginare per via giudiziaria l’evidente ritorno di fiamma dell’Italia per le mitologie e le declamazioni del Ventennio, rivedute e aggiornate secondo la bisogna della predicazione sovranista, oltre a costituire una contraddizione in termini per una opposizione liberale e una paradossale abdicazione al principio della giustizia-manganello, rappresenta una battaglia persa in partenza, visto che la fortuna passata, presente e futura del fascismo in Italia non deriva da un difetto di repressione, ma da un eccesso di credito che nella nostra politica, anche dopo il 1945, hanno guadagnato tutte le scorciatoie e scappatoie anti-liberali.
Essendo stato il fascismo non solo un regime, ma un carattere della Nazione e uno specchio in cui si è riflessa la sua verità più tragica e profonda – un misto di frustrazione di impotenza e illusione di potenza, lamentazione vittimistica e paranoia recriminatoria, violenza politica e retoriche d’ordine – non c’è da stupirsi che torni in forme anche iconograficamente più simili all’originale mussoliniano, dopo avere trovato svariate incarnazioni trasformistiche nella storia della Seconda Repubblica, dal manipulitismo al populismo, dall’anti-europeismo all’anti-politica. Manifestazioni dallo straripante successo bipartisan ed espressioni tutte, anche se in modo diverso, di quel sovversivismo delle classi dirigenti che è stato l’humus dell’eterno e cangiante fascismo italiano.
Se pensiamo di tornare a fare i conti col fascismo, mai definitivamente chiusi, con un po’ di giustizialismo antifascista e un po’ di antifascismo fascista – quello di cui parlavano Flaiano, Sciascia e Pannella – stiamo freschi. Peraltro, visto che la guerra all’Ucraina è la cartina al tornasole di tutta la politica italiana e europea e il banco di prova del fascismo e antifascismo reale e percepito, sarebbe grottesco iscrivere tra le fila della nuova resistenza le folte schiere di partigiani della pace, che lavorano da sinistra – oh quanto da sinistra! – per il disarmo di Kyjiv a beneficio del principale puparo del fascismo globale, Vladimir Putin.