La legge sull’autonomia differenziata approvata dal Senato, ora passerà all’esame della Camera, suscita grandi interessi e grandi tensioni, il che innesca polemiche non del tutto fondate e soprattutto poco centrate. Il punto di partenza è un livello, quello certamente differenziato, di efficienza delle diverse regioni, con un vantaggio del Nord sul Sud. Se la Lombardia offre un’organizzazione sanitaria, nonostante le giuste critiche, assai migliore di quella della Sicilia (che peraltro gode già di un’autonomia rafforzata essendo regione a statuto speciale) con costi unitari minori, vuol dire che il problema non sta nelle risorse ma nella capacità di utilizzarle.
I livelli di assistenza considerati minimi non sono raggiunti ora in alcune regioni, anche se non è in vigore la legge di cui si discute. Per questo sostenere che la legge “spacca l’Italia” o che trasferisce risorse dalle zone più svantaggiate a quelle più ricche non ha fondamento. L’autonomia differenziata originariamente era stata richiesta anche dall’Emilia-Romagna, il che esclude che sia di per sé un’idea “di destra”. Quello che invece dovrebbe essere chiarito è come si faccia, con una legge, a risolvere le differenze di efficienza e di competenza tra le regioni, o a ottenere quel livello minimo di prestazioni che finora non è stato raggiunto.
Il rischio vero non sta nell’attribuzione alle regioni che lo chiedono della gestione autonoma di fondi che comunque sarebbero erogati dallo Stato, ma l’illusione che con qualche aggiustamento contabile, magari utile, si risolvano quei problemi di fondo che hanno minato l’efficacia del sistema regionale. Forse una riflessione più concentrata sui temi concreti dell’organizzazione dei poteri regionali aiuterebbe a superare divergenze oggi largamente motivate da letture ideologiche, per far sì che le autonomie diventino davvero quell’articolazione dello Stato più consona alle peculiarità dei territori che era nel disegno costituzionale, e non sistemi di potere largamente autoreferenziali.