I 6 errori storici dei comunisti italiani e tutte le tragiche conseguenze

Finanche Lenin si era reso conto dei danni che provoca l’estremismo, ma in Italia, dopo la doppiezza togliattiana, abbiamo avuto prima i terroristi rossi con le loro vendette proletarie e poi varie strategie ma sempre una sola teoria: “nessun nemico a sinistra”. Nella teoria leninista la sinistra è rivoluzionaria e nessuno è più rivoluzionario dei comunisti. Le forze riformiste non sono un problema, sono “socialtraditrici”, mascheratura rosacea del diabolico capitale, moralmente corrotte e patria dei ladri. Lo pensava anche Enrico Berlinguer, che non è affatto un leader politico moderno, come taluno vuole oggi descriverlo, ma un comunista vecchio che preferiva l’occupazione della fabbriche alla riforma del mercato del lavoro ( Davide Giacalone). Negli anni settanta il Pci aveva a sinistra la concorrenza della sinistra extraparlamentare ma adesso che quell’area si è prosciugata è cominciata la rincorsa ai populisti, che però sono bipopulisti ( di destra e di sinistra) e vogliono le stesse cose. La logica che sta dietro a politiche diverse attuate in epoche diverse è sempre una sola: l’opposizione, ovvero mobilitare il popolo facendo crescere la paura del nemico contingente, presentato sempre come una minaccia incombente sulla democrazia e lo stato di diritto ( prima Scelba poi Fanfani, poi Andreotti, poi Craxi, Berlusconi, Meloni). Un nemico che nella originaria impostazione marxista era individuato nel Capitale e oggi è il cd Liberismo. Questa impostazione militaresca definisce una politica che neppure dopo la caduta del Muro ha saputo rinunciare alla logica dei due blocchi. L’antiamericanismo, talvolta la ripulsa antioccidentale, l’ostracismo verso ebrei e Israele, mercato e concorrenza, il giustizialismo, adesso il populismo come unico mezzo per conquistare facili consensi, sono le caratteristiche di un blocco dei “buoni e giusti” sempre in guerra contro i nemici (il Male) in nome di presunti ” superiori valori morali ed etici”. Insomma, il discorso della sinistra comunista ruota sempre intorno alla paura dei nemici, invece di sollecitare l’entusiasmo degli elettori verso qualcosa in cui credere.

1) LA RIVOLUZIONE MANCATA Quel che è certo è che, nell’uccidere a Firenze a sangue freddo il 15 aprile 1944 un uomo del calibro intellettuale e umano di Giovanni Gentile, ormai ininfluente politicamente, e nel giustificare l’assassinio, molti uomini della Resistenza mostrarono allora quale fosse per loro il vero obiettivo della guerra partigiana: non tanto un contribuito, altamente simbolico, dato agli alleati per liberare l’italia dal nazifascismo e instaurare la democrazia, quanto il primo atto di una rivoluzione violenta che avrebbe dovuto portare all’instaurazione del comunismo anche nel nostro Paese. Invitati a deporre le armi dai dirigenti comunisti, in nome di un domani con condizioni migliori per la rivoluzione o di un gradualismo che non era il loro, costoro elaborarono il mito della “rivoluzione mancata”. E fu questo mito a covare e a correre sotterraneo per molti anni dopo la guerra, in ambienti marginali ma a volte non ininfluenti della sinistra italiana, soprattutto intellettuale. Questo mito riemerse forte in una parte del nostro Sessantotto e armò la mano terrorista negli anni Settanta. Nel bene o nel male, Moro era il simbolo maggiore di quell’Italia repubblicana che, asservitasi agli americani e allo “Stato imperialista delle multinazionali”, aveva fatto della vittoria sui nazifascisti una “vittoria mutilata” (Corrado Ocone). Quali furono, se ci furono, i presupposti culturali, o sottoculturali, che spinsero le Brigate Rosse a “sferrare”, come suol dirsi, “un attacco al cuore dello Stato”? E perché, ad un Pci e a una classe operaia che furono compatti nello stare dalla parte delle istituzioni repubblicane, non corrispose un uguale sentimento nel corpo degli “intellettuali di sinistra”, cioè in pratica di buona parte del mondo culturale? Perché fu quella l’epoca, soprattutto fra gli intellettuali, dei distinguo, dei giustificazionisti (i “compagni che sbagliano”) e addirittura della falsa equidistanza (“né con lo Stato né con le Br”)? Il 24 gennaio del 1979 quando le Br uccisero il sindacalista dell’Italsider Guido Rossa tanti comunisti si svegliarono di colpo dal lungo sonno e cominciarono a capire che la posizione “nè con le Br nè con lo Stato” era stata un tragico errore. Di più, tutto l’antifascismo militante e la retorica sulla rivoluzione mancata del ’68 (Fascisti, borghesi ancora pochi mesi) erano stati il vero brodo di coltura dei terroristi rossi. I duri e puri che punivano i nemici del popolo non seguivano alcuna logica ma soltanto le loro farneticazioni. La “propaganda armata” era cominciata il 14 agosto 1970 con la diffusione dei primi volantini con la stella a cinque punte nello stabilimento milanese della Sit-Siemens: il contenuto prendeva di mira i dirigenti e i capi reparto (definiti “aguzzini”). Poi si passò a volantini con i nomi e gli indirizzi dei dirigenti, dei capireparto e di alcuni operai dell’azienda accusati di avere legami col “padrone”; alle accuse si sommavano questa volta anche le minacce. Il volantino precisava che le persone citate “dovevano essere colpite dalla vendetta proletaria perché simboli dell’oppressione capitalista e quindi servi del padrone“. In quel momento, eppure in politica ci sono cause e conseguenze, nessuno si era preoccupato di questi gesti e nessuno aveva pensato che dei semplici volantini presagissero uno dei periodi più cupi e bui della nostra storia.
Insomma, per capire le farneticazioni (la caccia ai servi del padrone) delle Brigate Rosse che all’inizio si limitavano ad atti teppistici contro i beni delle aziende o dei loro dirigenti ( come per esempio il 17 settembre 1970, con l’incendio dell’automobile di Giuseppe Leoni, uno dei dirigenti della Sit-Siemens), ci vollero ben 9 lunghi anni, sino alla morte nel 1979 del mite Guido Rossa. Basti pensare che Lotta continua avendo capito dove si andava a finire si era sciolta già nel 1976.

2) LA LEGA COSTOLA DEL MOVIMENTO OPERAIO Nel 1995 D’Alema disse: ” La Lega è il maggior partito operaio del Nord quindi piaccia o non piaccia è una nostra costola”. Siccome in politica tutto si tiene, proprio per recuperare quei voti operai che allora volevano la secessione del Nord si varò la riforma del Titolo V della Costituzione. La legge costituzionale n. 3/2001 ha interamente riscritto il Titolo V della Costituzione, modificando l’assetto del governo territoriale e sovvertendo i tradizionali rapporti tra stato centrale ed enti periferici. Se siamo arrivati a renderci conto con la pandemia che non c’è una sanità pubblica italiana ma solo tante differenti sanità regionali dobbiamo sapere che il fallimento del referendum Renzi del 2016 (che voleva appunto riparare il decentramento senza federalismo) è stato insieme con la riforma del Titolo V Cost. la causa di una conseguenza attuale, l’autonomia differenziata di Calderoli. Insomma, quelli che a sinistra proclamano che una riforma delle autonomie aggraverà il divario nord-sud dimenticano però che se questa riforma è possibile, ed è possibile in questi termini, è perché i dirigenti del centrosinistra, con il pieno sostegno di giornalisti e intellettuali di area, hanno varato la riforma costituzionale del Titolo V nel 2001 e bocciato il referendum Renzi.

3) TANGENTOPOLI E IL PARTITO DEI GIUDICI Spesso si dice che Tangentopoli mise fine alla Prima Repubblica. L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tangentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila. Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito. La rapida scomparsa dei partiti della Prima Repubblica lasciò un vuoto enorme nella politica, alimentato dal sentimento di rigetto tra gli elettori e le elettrici, evidente prima nelle elezioni dell’aprile del 1992 e poi in quelle del 1994. Questa situazione fu abilmente sfruttata da Berlusconi, all’epoca ricco imprenditore proprietario tra le altre cose della squadra di calcio del Milan e della società Fininvest, con cui controllava molte reti televisive private. Si propose come “uomo nuovo”, lontano dalle trame affaristiche della vecchia politica (sebbene da imprenditore conoscesse molto bene gli ambienti politici e fosse amico personale di Craxi). Nel 1994 dunque entrò in politica e alle elezioni di quell’anno ottenne oltre il 42 per cento dei voti con una coalizione larga, in cui c’era il suo partito (Forza Italia), Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini e la Lega Nord. Formando il primo governo, Berlusconi offrì il ministero dell’Interno a Di Pietro, che aveva pubblicamente sostenuto più volte, per motivi di consenso. Di Pietro rifiutò, e negli anni seguenti i due sarebbero diventati acerrimi rivali. Il governo comunque rimase in carica meno di un anno, per via dei litigi tra Berlusconi e la Lega Nord. Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.
È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega. È in questa stagione che la direzione dell’inchiesta giudiziaria
incontra e suscita l’adesione del gruppo dirigente e dei militanti del Pds. Sicuri che i risultati di Mani Pulite potessero favorire la propria marcia di avvicinamento al potere, dopo decenni di ostracismo e di democrazia bloccata. Nasce in questi mesi un rapporto singolare, basato sulla convenienza politica degli uni e sull’aspirazione al prestigio civile degli altri. Un legame che finisce per trasformare radicalmente il patrimonio genetico del principale partito della sinistra italiana, provocando una vera e propria metamorfosi culturale. Il germe del giustizialismo e l’illusione della scorciatoia giudiziaria per giungere al governo, il desiderio di risolvere nelle aule di tribunale problemi squisitamente politici, vengono inoculati progressivamente nel bagaglio ideologico del Pds, nei comportamenti e nelle strategie dei suoi rappresentanti. Sempre più allineati, da allora in poi, sulle iniziative del pool e sulle posizioni ufficiali della magistratura associata. L’ex magistrato Violante, dal 1979 nel Pci, presidente dell’Antimafia nel 1992 e della Camera nel 1996, diventa a sinistra il capo del partito dei giudici. La “nuova vita” di Antonio Di Pietro comincia nel maggio 1996, quando accetta di diventare responsabile dei lavori pubblici nel governo dell’Ulivo guidato da Romano Prodi. Ma è nell’autunno del 1997 che si completa la sua discesa nell’agone politico-parlamentare. Per sostituire il senatore del Pds Pino Arlacchi, D’Alema e Prodi offrono a Di Pietro la possibilità di candidarsi per l’Ulivo nell’elezione suppletiva per il collegio toscano del Mugello. L’ex toga accetta la proposta e il 9 novembre trionfa con il 67,8 per cento dei voti sconfiggendo il berlusconiano Giuliano Ferrara e il comunista Sandro Curzi. Nel 2008 l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro si presenta alle politiche con il proprio simbolo e proprie liste apparentate a quelle del Pd, quindi sottoscrivendone il programma e avendo come candidato premier quello del Pd, cioè Walter Veltroni.

4) BERLUSCONI LO VIDERO ARRIVARE SENZA CAPIRLO (Aldo Cazzullo). Certo la sinistra non capì Berlusconi e non trovò mai il modo di batterlo se non con due striminzite maggioranze nel 1996 e nel 2006. Ma la destra berlusconiana fu sempre maggioranza nel paese. La destra aveva un capo; la sinistra aveva tanti capetti in lotta tra di loro. B. aveva dominato gli anni 80 con le tv e il Milan. Aveva già lanciato il suo messaggio agli italiani: non voglio cambiarvi, semmai assecondarvi; io sono uno di voi, soltanto un pò più ricco. (Ettore Maria Colombo) Ricordate quando nel 1996 D’Alema visitando Mediaset disse che era un patrimonio importante di tutti gli italiani e dunque sul conflitto d’interessi, invocato da Paolo Sylos Labini legge alla mano, non se ne fece nulla? Giorgio Bocca, a metà degli anni Settanta, si accorge e intervista pure quello che reputa un ‘palazzinaro’ che vuole fare carriera, scalpita e punta a costruire, come farà negli anni Ottanta, un piccolo impero mediatico fatto di tv e giornali. Un ‘palazzinaro’ dalle oscure amicizie e frequentazioni, ma senza capirne l’importanza perché, per la sinistra, esistevano ‘solo’ i giornali e, pur Berlusconi possedendo quote del Giornale di Indro Montanelli, la sua rete di tv commerciali era ritenuta innocua. Mai errore fu più grande. Le tv di Berlusconi plasmarono, piano piano, l’immaginario televisivo, contaminando la Rai, fino agli anni Ottanta immune dalle ‘negatività’ delle tv private (giochi a premi, quiz, programmi per casalinghe, programmi di evasione, ‘leggeri’). Poi, la svolta. Berlusconi diventa amico personale di Bettino Craxi, leader del Psi, che la sinistra vedeva come il primo ‘Uomo Nero’ della storia italiana dai tempi di Benito Mussolini. Il binomio, prima solo personale e amicale, poi politico, permette a Craxi di imporsi, sulla scena, come colui che vuole ‘svecchiare’ la Sinistra. Berlusconi, con le sue tv, lo aiuta a farlo. Per la sinistra diventa, presto, un nemico da abbattere, oltre che un sodale dell’arcinemico Craxi che da un lato vuole scardinare l’egemonia culturale del Pci e, dall’altro, vuole sostituire il predominio dc (placido e indolore), dentro i governi pentapartito, al governo, con un piglio decisionista inusuale, per i tempi, che per la sinistra è già ‘dittatoriale’. Il decreto (anzi, i decreti, detti non a caso ‘decreti Berlusconi’) sulle tv del governo Craxi, che permettevano alle reti Fininvest di trasmettere sul piano nazionale e in contemporanea (poi dichiarati incostituzionali dalla Consulta) vennero sanati, paradossalmente, non da un governo Craxi ma dal decreto Mammì del VI governo Andreotti.

5) A RIMORCHIO DEL POPULISMO Con la legge costituzionale n.1 del 19 ottobre 2020 si sono ridotti i parlamentari, come avevano concordato il 18 maggio 2018 il Movimento 5 Stelle e la Lega (governo Conte 1) sottoscrivendo il “Contratto per il governo del cambiamento”. Tale riduzione alla fine è stata approvata anche dal pd, perchè dopo essere stato al rimorchio della Lega operaia di Bossi si è messo al rimorchio, come avviene tuttora con Schlein, del populismo dei 5 Stelle. L’idillio cominciò nell’anno e mezzo del Conte 2, dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021, perciò è passata alla storia l’esaltazione nel 2019 da parte di Zingaretti, segretario del PD, in un’intervista al Corriere della Sera, del presidente del Consiglio Conte come “punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti”. Il consenso popolare ottenuto dai 5Stelle nelle elezioni del 2018 ha provocato nel pd lo stesso effetto che ebbe su D’Alema l’affermazione della Lega di Bossi: l’inseguimento ai voti “popolari” che erano stati sottratti al pd dai 5Stelle e il recupero dei voti del crescente astensionismo. Si spiega così l’assenso alla riduzione del numero dei parlamentari dopo aver bocciato la proposta Renzi di metter mano al bicameralismo, si spiega così l’ostracismo al Jobs act renziano accusato di aver aumentato la precarietà. In generale gli studi sono concordi nel ritenere che il Jobs Act abbia avuto un impatto positivo sull’occupazione, limitato in alcuni ambiti e non nell’ordine di grandezza rivendicato dai suoi promotori (Matteo Marasti, Pagella politica). Ma l’effetto più tragico dell’aver considerato i 5Stelle alleati e non avversari è stato il via libera nel presentare il reddito di cittadinanza e il Superbonus come misure progressiste. Continuando nella lotta al nemico comune che era Renzi, ci si accanì contro il Reddito di Inclusione (REI) che da gennaio 2018 era lo strumento universale di contrasto alla povertà su scala nazionale. Il REI era disegnato per raggiungere le famiglie in povertà, attraverso soglie di accesso sia reddituali sia patrimoniali. Tuttavia, come aveva riconosciuto lo stesso Renzi, era partito con scarsi finanziamenti (2,1 miliardi di euro nel 2018) e quindi si stimava che potesse coprire solo la metà della platea. Invece di lasciare il REI dotandolo di maggiori risorse, il populismo di 5Stelle e Pd preferì l’adozione di uno strumento alternativo, il “reddito di cittadinanza”, per coprire una platea ben più ampia (2,8 milioni di famiglie) e garantire un beneficio molto più elevato (fino a €780 mensili per un single, rispetto ai 188 del REI). Il reddito di cittadinanza è dunque costato molto (30 miliardi di euro o più secondo varie stime, rispetto ai già elevati 17 miliardi prospettati dal M5S) e ha comportato uno spreco ingente di risorse pubbliche, poiché concesso anche a individui che poveri non sono. Ben presto la narrazione che potesse avviare al lavoro, vista la ben nota situazione deficitaria dei Centri per l’Impiego si è rivelata una semplice presa in giro dell’opinione pubblica. E’ del tutto superfluo accennare agli effetti nefasti sul debito pubblico del Superbonus 110% e del decreto Facciate voluto da Franceschini. Ricordiamo che il Superbonus è stato introdotto a maggio 2020 con il decreto “Rilancio”, che ha esteso il sistema della cessione dei crediti d’imposta a quasi tutti i bonus edilizi. Nel corso degli anni queste norme hanno subito varie modifiche. Da ultimo, a febbraio 2023, il governo Meloni ha deciso di bloccare la cessione dei crediti e il sistema dello sconto in fattura nel tentativo di contenere i costi dei bonus, aumentati rispetto alle previsioni iniziali. Il 9 ottobre, in un’audizione alle commissioni Bilancio di Senato e Camera, il capo del Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia Sergio Nicoletti Altimari ha dichiarato che i crediti d’imposta maturati fino alla fine del 2022 per il Superbonus e per il bonus “Facciate”, introdotto nel 2019, «sono stati complessivamente dell’ordine di 90 miliardi». Per il solo 2023 la spesa per il Superbonus è stimata di poco inferiore ai 40 miliardi di euro. Sommando queste voci si ottengono circa 130 miliardi di euro. Questo numero, però, riguarda anche il bonus “Facciate” e i costi stimati per i prossimi mesi (Pagella politica, Carlo Canepa, 10/10/23).

6) GIUSTIZIALISTI Il termine Giustizialismo, secondo la Treccani, è stato adottato nel linguaggio giornalistico per definire l’atteggiamento di chi, per convinzione personale o come interprete della pubblica opinione, proclama la necessità che venga fatta severa giustizia (magari rapida e sommaria) a carico di chi si è reso colpevole di determinati reati, spec. quelli di natura politica, di criminalità organizzata, di amministrazione pubblica disonesta, in opposizione ai cosiddetti garantisti e a quanti si mostrano favorevoli a sanatorie e «colpi di spugna» generalizzati. I giustizialisti non rispettano il principio costituzionale della “presunzione di innocenza” e si si avvalgono di una stampa che vuol essere ufficio stampa delle procure e di un uso spregiudicato delle intercettazioni pubblicate senza alcun filtro sui giornali, provocando senza processo e senza alcuna garanzia la cd “gogna mediatica”. Prima di una sentenza definitiva, ancor prima di un giusto processo, le conferenze stampa degli inquirenti che hanno concluso le indagini o effettuato degli arresti vengono presentate all’opinione pubblica come verità accertate e definitive. I casi di indagati che dopo anni di tribolazione e di sputtanamento vengono dichiarati dalla stessa magistratura innocenti rappresentano il prezzo ingiusto pagato al connubio pm-stampa e al partito giustizialista il quale ormai ha assunto chiare connotazioni populiste. (26/1/24)