In queste settimane circola un meme in Israele: ritrae il primo ministro Benjamin Netanyahu attorniato da militari e sopra la scritta «Autorizzato alla pubblicazione: Tsahal [acronimo di Forze di difesa di Israele, l’esercito israeliano] ha catturato il capo del sistema finanziario di Hamas».
Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ampi settori dell’opinione pubblica israeliana hanno trovato un terreno comune nell’individuare nel primo ministro Benjamin Netanyahu il responsabile principale del fallimento di intelligence e militare israeliana, costato la vita a oltre 1.200 persone, il ferimento di migliaia e la cattura di oltre 200 ostaggi. Le accuse vanno oltre la negligenza, affermando che la strategia di lungo termine da parte di Netanyahu per rafforzare Hamas e ostacolare una soluzione al conflitto israelo-palestinese ha condotto direttamente agli avvenimenti del 7 ottobre.
Yuval Diskin, ex capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza generale, ed Ehud Barak, ex primo ministro, hanno accusato Netanyahu di aver contribuito significativamente alla crescita di Hamas, sostenendo che ciò servisse al suo obiettivo di indebolire l’Autorità nazionale palestinese e a promuovere un discorso politico basato sull’assenza di alcun partner possibile per raggiungere un accordo, dando forza a una retorica già forgiata per motivare il fallimento degli accordi di Camp David tra Ehud Barak e Yasser Arafat nel 2000.
ll primo ministro israeliano avrebbe usato la vecchia strategia di divide et impera per minare attivamente l’unitá palestinese e delegittimare i partner palestinesi. Per farlo, avrebbe scientemente deciso di permettere il rafforzamento e il finanziamento di Hamas. Senza un interlocutore credibile, Netanyahu aveva una scusa per evitare di sedersi al tavolo negoziale. L’attuale ministro delle finanze, il colono Belazel Smotrich, spiegò l’approccio al canale israeliano Knesset nel 2015: «Hamas è un vantaggio e Abu Mazen (Mahmoud Abbas, leader dell’Autorità nazionale palestinese) è un peso».
Questa strategia di rafforzamento di Hamas risale già al primo mandato di Netanyahu come primo ministro nel 1996. Dopo che l’ebreo ultra-ortodosso Yigal Amir assassinò il primo ministro Yitzhak Rabin, che aveva negoziato gli accordi di Oslo, gli estremisti minarono la pace. Esponenti della destra radicale israeliana come Itamar Ben Gvir, oggi influente ministro della sicurezza nazionale, alzarono i toni dello scontro. Hamas, da parte sua, continuò la prima campagna di attentati suicidi. Tutto ciò contribuì alla vittoria elettorale di Netanyahu e del suo partito, il Likud, fondato nel 1973 da Menachem Begin in opposizione al partito laburista.
Quando Netanyahu tornò al governo nel 2009, la strategia venne rilanciata. Nel frattempo, Israele aveva smantellato gli insediamenti – illegali secondo il diritto internazionale – all’interno della Striscia, mantenendo tuttavia il controllo del territorio e dell’accesso delle risorse. Nel 2006, la vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi non venne riconosciuta dalla comunità internazionale e fu seguita da un conflitto tra Hamas e Fatah – partito fondato da Arafat, con la maggioranza dei voti in Cisgiordania – che portò a uccisioni di leader di entrambe le parti. Nel 2007 venne sancita la separazione, che permane tuttora, tra la Cisgiordania amministrata in parte dall’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen e Gaza, amministrata da Hamas.
L’approccio controverso di Netanyahu prevedeva l’isolamento di Gaza, rafforzando il controllo di Hamas sulla Striscia, da un lato, e il sostegno al governo economico verso Hamas a Gaza, dall’altro, arrivando anche a garantire fondi qatarioti al gruppo. Questa politica fu criticata da membri del suo stesso governo, come Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, ma nonostante brevi interruzioni è persistita per anni.
La strategia mirava a complicare la prospettiva di una soluzione a due Stati, facilitando così a Netanyahu argomentazioni contro negoziati e compromessi.
Nel novembre del 2018 le immagini di valigie piene di milioni di dollari in contanti, provenienti dal Qatar e destinati ad Hamas, fecero il giro del mondo. Erano le prove di una strategia di finanziamento che tra il 2012 e il 2018 avrebbe portato al trasferimento di 1,1 miliardi di dollari nelle casse di Hamas. I fondi venivano trasferiti elettronicamente dal Qatar a Israele, per poi essere introdotti in contanti all’interno della Striscia da parte di inviati qatari e distribuiti direttamente a dipendenti pubblici di Gaza, a famiglie e individui. Netanyahu difese pubblicamente la scelta di autorizzare il trasferimento di fondi, sostenendo che fossero destinati al pagamento degli stipendi e del carburante, anche in funzione di un indebolimento dell’ANP: «Mantenere una separazione tra l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza aiuta a impedire l’istituzione di uno stato palestinese», affermò Netanyahu.
Lieberman si dimise in segno di protesta contro la politica pro-Hamas di Netanyahu, affermando che in questo modo Israele stesse «alimentando un mostro». Anche l’allora ministro dell’istruzione di Netanyahu, Naftali Bennett, condannò i pagamenti e rassegnò le dimissioni. Ahmed Majdalani, rappresentante dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), accusò l’inviato del Qatar a Gaza, Mohammad al-Emadi, di far transitare denaro ad Hamas «come un gangster e un trafficante».
La crisi di governo determinò la creazione di un nuovo esecutivo, che fermò i trasferimenti di fondi ad Hamas, ma che durò solo 19 mesi, dall’aprile 2019 al settembre 2020. La successiva coalizione, caratterizzata dall’alleanza dei partiti più estremi, appoggiò nuovamente la politica di favorire Hamas per evitare un accordo di pace negoziato.
Netanyahu insisteva sul fatto che né i soldi né i materiali di costruzione che arrivavano a Hamas sarebbero stati deviati a scopi militari. All’epoca, alcuni esponenti dell’esercito cercarono di avvertirlo. Nel 2019, il membro del Partito laburista, Haim Jelin – residente del kibbutz Be’eri – affermó: «Noi residenti al confine di Gaza stiamo pagando il prezzo per la mancanza di politica e l’arroganza di fronte al terrorismo». Parole che avrebbero mostrato tutto il loro peso quattro anni dopo quando la comunità del kibbutz Be’eri è stata devastata da Hamas il 7 ottobre.
I percorsi politici di Netanyahu e Hamas sono stati intrecciati per anni. Dopo il 7 ottobre, alcune fonti sostengono che Netanyahu abbia rifiutato per settimane un accordo per la liberazione degli ostaggi, ben sapendo che alla fine del conflitto potrebbe essere costretto a dimettersi. I familiari degli ostaggi protestano contro la sua gestione del conflitto e delle negoziazioni per la loro liberazione. Esponenti dell’opposizione hanno chiesto le sue dimissioni.
Hamas e Netanyahu potrebbero entrambi rivelarsi più difficili da eliminare di quanto sperino i loro avversari e nemici. E se anche lasciassero la scena, le concrete possibilità di una soluzione basata su “due popoli, due Stati” sono al momento quasi nulle. Come ha dichiarato Mairav Zonszein dell’International Crisis Group, «sono preoccupata che la paura e il trauma e lo shock di ciò che è successo renderanno solo gli israeliani più spaventati dei palestinesi, e i palestinesi più spaventati degli israeliani (…) Molti israeliani si stanno armando ora con armi personali perché non si fidano che l’esercito e la polizia saranno lì per loro». E neanche gli abitanti di Gaza accetteranno facilmente l’eventuale controllo da parte dell’ANP, le cui ultime elezioni risalgono al 2006 e ritenuta ampiamente corrotta a tutti i livelli.
La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha chiesto la fine delle violenze da parte dei coloni israeliani in Cisgiordania. Richiesta già espressa dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Gli attacchi da parte dei coloni – settore chiave della coalizione di Netanyahu – sono aumentati nel corso del 2023, anche prima del 7 ottobre: «Stanno attaccando i palestinesi nei luoghi in cui hanno il diritto di essere, e questo deve finire», ha affermato Biden, il 25 ottobre.
Biden ha parlato anche di ciò che gli Stati Uniti vogliono vedere dopo la guerra. «Quando questa crisi sarà finita, ci deve essere una visione di ciò che viene dopo», ha detto, «e, secondo noi, deve essere una soluzione a due Stati». Né Hamas né Netanyahu condividono quella visione. Il 22 settembre 2023, pochi giorni prima dei massacri di Hamas nel sud di Israele, Netanyahu si è rivolto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, mostrando una mappa di quello che ha definito «il Nuovo Medio Oriente» che raffigurava tutta la Cisgiordania e Gaza, oltre a Gerusalemme Est e alle alture del Golan siriano, come parti di un Israele “dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]”, senza uno Stato palestinese in vista.
L’intricato intreccio tra le strategie politiche di Netanyahu, l’evolversi della relazione con Hamas e l’impatto sulla soluzione a due Stati evidenziano tutta la complessità del conflitto israelo-palestinese. Gli eventi che si stanno verificando sul campo e le risposte sia da attori interni che internazionali continueranno a plasmare la traiettoria di questa sfida geopolitica duratura e profondamente radicata.
*Maria Chiara Rioli, Università di Modena e Reggio Emilia
*Roberto Mazza, Northwestern University