La sala professori, grande film tedesco sugli idealisti

(5/3/24) (TRAMA) Carla Nowak (Leonie Benesch) è una giovane docente di origine polacca di Matematica e Sport in un Gymnasium tedesco. L’ambiente scolastico viene turbato da una serie di furti avvenuti all’interno dell’istituto e alcuni insegnanti provano a identificare il presunto colpevole tra gli alunni con metodi poco adatti, secondo Carla, per una scuola, il cui motto, come ripete più volte la preside, è la “tolleranza zero”.
A essere accusato è Ali, studente di una famiglia di migranti turchi, che però risulta in seguito innocente. Carla, che non crede che i furti siano stati commessi da uno studente, lascia il computer acceso con la telecamera nella sala professori, stanza nella quale gli studenti non sono ammessi nè possono avere accesso.

La telecamera riprende il furto di una somma di denaro prelevato dal portafoglio, lasciato volutamente dalla professoressa nella giacca appesa alla sedia, e a salire sul banco degli imputati è l’insospettabile segretaria della scuola, la signora Kuhn, madre di Oskar, un ragazzino tra i più bravi e dotati della classe.
La conseguente sospensione della segretaria provoca un malessere nel piccolo Oskar, e le conseguenti vicende avranno ripercussioni sulla dirigenza scolastica, nei rapporti tra insegnanti, alunni e genitori.

La sala professori che dà titolo al film di Ilker Çatak, è il luogo in cui gli insegnanti, i responsabili e gli impiegati dell’istituto svolgono l’attività di governo della scuola. In questo contesto Carla, che è amata dagli studenti, che dirige come una direttrice d’orchestra, con un saluto e un battimani che esegue con gli alunni ogni volta che entra in classe, si trova sospesa tra l’amore e la fiducia che ha nei suoi studenti e il sospetto che ormai è più di un indizio nei confronti della segretaria della scuola, madre di uno dei suoi alunni migliori. (Roberto Codini)

Mentre proliferano nelle scuole italiane di ogni ordine e grado le redazioni giornalistiche di studenti che confezionano tg come se fosse la cosa più facile da improvvisare, il cinema comincia decisamente ad occuparsi della verità e del verosimile nel tempo che Ricolfi ha chiamato delle credenze. Noi siamo impotenti e divisi in due campi. Quello di coloro che credono di sapere, e quello di coloro che sanno di non sapere. Mentre in “Anatomia di una caduta” la regista francese Justine Triet ci fa interrogare, immedesimandoci in un bambino cieco di 10 anni, sulle dinamiche di coppia, rifiutandosi di dar soluzione al giallo sul quale ha impostato il film, il tedesco Ilker Çatak (Berlino, 1984) avvicina lo spettatore a Carla, “supplente” di origine polacca di Matematica e Sport alle prese con piccoli furtarelli che avvengono nella scuola media in cui insegna. Anche qui alla fine il giallo per il regista e’ solo un pretesto (si chiama MacGuffin in gergo, un pretesto narrativo), vediamo solo Carla che entra in aula, richiama l’attenzione dei propri studenti e li invita ad urlare insieme a lei il più forte possibile.

Ciascuna cinematografia si rapporta all’ambiente scolastico secondo le peculiari cifre stilistiche, in Italia non sappiamo rinunciare alla commedia. Finora il cinema tedesco, attraverso L’onda di Dennis Gansel, si era interrogato sulle dinamiche che dallo spirito di comunità possono far nascere strutture sociali autoritarie.

Finalmente oggi, grazie a La sala professori, il microcosmo scolastico abbatte i suoi muri e si presenta per quello che è, il riflesso della società intera con le sue dinamiche e i suoi conflitti. A scuola (quando ce ne renderemo conto?) s’insegna e s’impara la democrazia, un sistema per regolare i rapporti tra gli individui, imperfetto ma l’unico che siamo riusciti a mettere in piedi per evitare la violenza della legge del piu’ forte, e quindi anche nel film tedesco di tanto in tanto si evoca “tolleranza zero” o “democratizzazione”. Ma soprattutto, nella scuola/società, si agisce, ognuno si comporta come sa e come può, e le conseguenze spesso formano un corto circuito.

Carla Novak, l’insegnante di matematica, spiega agli alunni che la scienza ha reso le cose, che l’umanità riteneva imprevedibili, prevedibili come le eclissi di sole. Nel suo idealismo (con le migliori intenzioni) crede che ragionando  e agendo possa risolvere le problematiche. E  invece appunto non tutto è prevedibile, ad ogni azione corrisponde una reazione e quindi azioni e reazioni provocano discriminazione, sospetti e minacce e pettegolezzi e pregiudizi. Il film di Catak è costruito su una tensione che sale (non c’è un solo momento leggero) e su Carla, insegnante che crede nella sua missione, pure troppo (per me non e’ un personaggio simpatico).  Il cinema, basta solo citare il Weir di L’attimo fuggente, ha spesso puntato sul docente-eroe come la “soluzione” al degrado. Purtroppo si tratta ora con realismo ma senza cinismo di abbandonare questa speranza. Ognuno, come diceva il nostro maestro Manzi, fa quel che può in perfetta buona fede, e quindi dietro ogni calcolo può annidarsi l’errore, che rende ogni nostra certezza inconsistente.  Rimane tanta rabbia e tanta frustrazione e, forse, la convinzione che a scuola cosi’ come nella vita non si finisce mai di imparare, anche dagli sbagli fatti in buona fede.

Un film quindi che attraverso le azioni di una insegnante idealista (ovvero l’insegnante ideale per i giovani in formazione, sta dalla loro parte ed è al loro servizio) riesce finalmente a guardare in profondità dentro il pozzo della nostra società, piena di conflitti e di giustizialismo (che e’ il modo sbrigativo di condannare senza processi)  come il mondo scolastico di oggi. Lo fa concentrandosi dentro una scuola (senza occuparsi affatto del privato dei protagonisti), evitando l’autorismo o uno stile riconoscibile, ma con una intelligenza narrativa straordinaria, grazie al volto espressivo di Leonie Benesh sul quale è costruito tutto il film.

Si pensi per un momento solo a questo piccolo particolare del film di Catak, i furtarelli di denaro vorrebbero essere indagati (in perfetta buona fede) con una telecamerina. Non è forse metafora di quel che in questi giorni e anni la cronaca giudiziaria italiana ci propone di continuo e che ho definito giustizialismo? Quel che è verosimile è reale? Se attraverso intercettazioni continue che finiscono trascritte non si sa da chi sui giornali si celebrano continui processi mediatici senza più garanzie personali per gli individui, tutto questo ci avvicina di più a concetti quali “giustizia” e “verità”? A scuola i bambini cominciano a imitare gli adulti (ecco perchè producono giornaletti e simulano processi), infatti l’istruzione passa attraverso non le parole o il linguaggio, ma attraverso l’esempio, la condotta, l’educazione. Così, credo, è interpretabile quella rabbia finale che accomuna (o dovrebbe farlo) insegnanti e allievi.

Nella scuola-società italiana edificata sull’iper-giuridicizzazione, dove l’indagine (con i suoi rituali) e la denuncia e i ricorsi (insomma la burocrazia con i suoi bolli) si pensa possano affermare la verità, questo film dovrebbe insinuare qualche dubbio salutare. Non basta. Quando la preside dice alla tenace Carla ” io ho molta più esperienza di lei quindi so cosa si deve fare”, si comprende anche come in un mondo che cambia ormai troppo velocemente neppure l’esperienza ci salva più, ci aiuta ma non ci rende infallibili.

La Germania multiculturale del film, dove agiscono il pregiudizio e il sospetto e il razzismo, ci fa capire che non ci sono più innocenti, tra gli insegnanti, tra gli studenti, tra i genitori. Gli scontri (anche fisici come riportano le cronache italiane) tra queste categorie ci convincono  che non sia facile trovare una via d’uscita. Questa “pedagogia” di un film giustamente candidato all’Oscar appare necessaria, forse indispensabile.

Il regista Ilker Catak