7-4-24 (da FOCUS Storia Israele e Palestina: la storia di una terra ancora contesa)
Sono decenni che israeliani e palestinesi si contendono il diritto di determinare il proprio destino nello stesso lembo di terra. La loro disputa ha diviso milioni di individui. E se il Medio Oriente è “il ring del mondo”, come l’ha definito lo storico Yuval Noah Harari, è anche a causa di questo lungo e irrisolto conflitto. Cos’è accaduto? E perché? Per rispondere a queste domande riproponiamo l’articolo “Promessa e contesa” di Simone Cosimelli, tratto dagli archivi di Focus Storia.
PROMESSA MANTENUTA. Alla fine del XIX secolo l’intolleranza nei confronti degli ebrei aumentò. Per reazione alcuni intellettuali diedero vita al sionismo, un movimento politico che invocava il ritorno in Palestina, la “terra promessa” della Bibbia. Il nome derivava dall’altura di “Sion”, il nucleo originale della Città Santa, Gerusalemme. E il richiamo alla tradizione era forte. Ma la popolazione della zona, controllata dal decadente Impero ottomano e senza un’entità statale, era a maggioranza arabo musulmana. Alla fine della Prima guerra mondiale le potenze europee (tradendole aspettative degli arabi) ridisegnarono il Medio Oriente.
GLI ORRORI DELL’OLOCAUSTO. La Gran Bretagna, che dal 1917 era favorevole a uno Stato ebraico, ottenne il Mandato di Palestina: nella parte est istituì la Transgiordania (poi Giordania), mentre a ovest accettò di tutelare gli insediamenti ebraici, pur rassicurando gli arabi presenti, ovvero i palestinesi. Dunque l’Aliyah, il pellegrinaggio ebraico, si intensificò. Dopo le prime ondate dall’Europa Orientale, migliaia di ebrei, con l’ascesa dei regimi fascisti, lasciarono l’Europa Occidentale per approdare sulla terra degli avi. Prima nacquero gruppi radicali per rivendicare l’identità palestinese e poi, tra il 1936 e il 1939, scoppiò una grande rivolta. I britannici la repressero e allo stesso tempo limitarono l’emigrazione ebraica. Ma gli orrori dell’Olocausto stravolsero ogni scenario. Il genocidio nazista infatti non poté che rinforzare la causa sionista e, in breve, “la terra promessa” si trasformò in una patata bollente. Così, il Regno Unito optò per il ritiro dalla Palestina e delegò la questione all’Onu.
LA RISOLUZIONE ONU 181. Nel 1947 l’Assemblea generale dell’Onu approvò la risoluzione 181 (il piano di partizione della Palestina) e indicò la strada da percorrere: due Stati sulla stessa terra, l’uno ebraico (che avrebbe coperto il 55% della zona e ospitato anche 400mila palestinesi) e l’altro arabo (meno esteso, ma quasi integralmente musulmano), con Gerusalemme sotto controllo internazionale.
I leader ebrei, che ormai rappresentavano 600mila individui, accettarono. Quelli palestinesi, che ne rappresentavano un milione e 250mila, no. Così quando il 14 maggio del 1948, prima del ritiro britannico, l’Yishuv (la comunità ebraica) dichiarò l’indipendenza dello Stato di Israele con l’assenso di molti Paesi, tra cui Usa e Urss, scoppiò la guerra. Gli Stati confinanti della Lega Araba, che consideravano il sionismo un’ingerenza straniera, attaccarono Israele, che a sua volta contrattaccò.
LA CATASTROFE. Agli arabi andò male. Nel 1949 furono firmati diversi armistizi (ma non accordi di pace) in seguito ai quali Israele ottenne ancora più territori di quelli previsti con gli accordi Onu, inclusa la parte ovest di Gerusalemme. Come se non bastasse, zone destinate ai palestinesi vennero occupate dagli Stati arabi: la striscia costiera di Gaza dall’Egitto, la parte est di Gerusalemme e la cosiddetta Cisgiordania (a ovest del fiume Giordano) dalla Giordania. Molti scapparono e tanti furono sradicati su impulso degli israeliani, che temevano infiltrazioni nemiche e non riconoscevano queste nuove entità. Né gli altri arabi li integrarono con pieni diritti; avrebbe significato legittimare Israele. Una tragedia definita Nakbah (“la catastrofe”): in 700 mila persero case, affetti, lavoro; molti finirono nei campi profughi dell’Onu.
LA CRISI DI SUEZ. Per ritorsione, negli anni seguenti gli Stati arabi espulsero 700 mila ebrei. Anche loro si trasferirono sul territorio israeliano, unendosi ad altri 250mila che arrivavano dall’Europa. Uno Stato di Israele sempre più forte e popoloso non poteva che fomentare il risentimento degli Stati arabo-musulmani. E infatti si passò alle armi. Nell’ottobre 1956, durante la crisi di Suez, Israele si unì alla spedizione anglo-francese per infliggere un colpo all’Egitto; solo le minacce di Usa e Urss impedirono la guerra aperta. Per i palestinesi la misura era colma. Nel 1964 gruppi di militanti si proposero di cancellare lo Stato ebraico e nel 1964, con il sostegno della Lega Araba, venne istituita l’Olp: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
LA GUERRA DEI 6 GIORNI. Per tutelare i propri commerci sul Mar Rosso, nel giugno 1967 Israele lanciò un attacco preventivo contro l’Egitto. Siria e Giordania intervennero. Gli eserciti arabi furono rapidamente sconfitti (“Guerra dei Sei giorni”) e Israele si accaparrò nuovi territori occupando Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Penisola del Sinai: tutte aree dove, a discapito dei palestinesi che vi vivevano, lo Stato ebraico promosse nuovi insediamenti. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu invitò al rispetto dei confini, a una pace “giusta e duratura”; invano.
LA CRISI ENERGETICA. Nel 1973, durante la festa ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria invasero il Sinai e le alture del Golan per regolare i conti. Si arrivò a uno stallo. I Paesi mediorientali produttori di petrolio, per danneggiare i sostenitori di Israele, bloccarono le esportazioni di greggio. Ne derivò una crisi energetica che piegò l’Occidente. Solo nel 1978, con gli accordi di Camp David, la situazione si stemperò. Israele lasciò il Sinai e l’Egitto riconobbe lo Stato ebraico.
USA E URSS. Il Medio Oriente riuscì dunque a infiammare un mondo diviso da interessi contrapposti. Gli Usa si allearono con Israele; mentre l’Urss appoggiò gli arabi. Nessuno, però, ebbe mai il pieno controllo degli attori in campo. «Attraverso i conflitti arabo-israeliani e gli innumerevoli momenti di crisi», spiega Paolo Soave, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Bologna, «la questione mediorientale si è legata alla Guerra fredda, e l’ha condizionata molto più di quanto la dialettica fra Usa e Urss abbia potuto influenzare la regione».
LE PRIMAVERE ARABE. Le guerre cessarono, ma ebrei e palestinesi non si riconciliarono. A Israele, che aveva costruito una salda democrazia, le correnti politiche oltranziste cominciarono a marginalizzare quelle moderate. Gli attacchi dei guerriglieri palestinesi surriscaldarono animi già incandescenti e si arrivò all’invasione del Libano, nel 1982, pur di colpire le basi dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Due forze inamovibili presero quindi a scontrarsi: la volontà degli ebrei di proteggere il sogno di una patria, e il desiderio dei palestinesi di riprendersela. Nel tempo, potenze rivali come l’Arabia Saudita e l’Iran trovarono in Israele un avversario comune. E mentre l’Olp si mostrò disponibile a un compromesso (con il rilancio della soluzione a due Stati) gruppi islamici radicali, come Hamas e Hezbollah, impugnarono le armi. Nel 1987 e nel 2000 le due “Intifade” palestinesi scossero le zone di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme. E l’intransigenza di Israele si fece più marcata. Tuttora il futuro del Medio Oriente resta da scrivere. «L’ostilità per Israele», conclude Soave, «ha sempre avuto un ruolo unificante, ma ha dato vita a un fronte eterogeneo. Dopo la Guerra fredda, il Medio Oriente è stato attraversato da altre linee di frammentazione, in particolare l’esplodere delle tensioni fra sciiti e sunniti.
EQUILIBRIO SPEZZATO. Il nodo di Israele resta sullo sfondo, un vessillo che tutti sbandierano con alterna convinzione.
La regione si anima soprattutto per la costante ricerca di un punto di equilibrio politico fra le sue componenti interne, trasversali ai vari Paesi e sensibili a fattori come il terrorismo, la questione economico-sociale e quella nucleare. L’instabilità di Paesi come Iraq e Libia, la crisi siriana, le “primavere arabe” e le inquietudini iraniane confermano la tipicità di un’area i cui sistemi politici continuano a reggersi solo sulla concentrazione del potere politico-militare in poche mani». Con gli Stati Uniti meno interessati all’area e l’Unione Europea debole e divisa, sulla scena del Medio Oriente si sono affacciati altri attori: la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin.
(commento finale di francesco cundari) Sul conflitto politico e militare in terra santa, culla di tutte le maggiori religioni monoteiste, ho sempre avuto una posizione analoga a quella che da tempo ho maturato nei confronti di ogni religione, riassumibile in un sostanziale agnosticismo. Anzi, che si trattasse dell’origine dell’universo o della ragnatela di reciproche sopraffazioni della questione israelo-palestinese, ho sempre trovato sorprendente come gli altri riuscissero invece a formarsi con tale facilità un giudizio univoco, inscalfibile e perfettamente definito.
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