Da quando l’Iran si è voluto accreditare come il principale protettore dei palestinesi? E da quando l’Iran è diventato antiamericano? Le due domande sono collegate fra loro. Le risposte sono importanti per capire che il Medio Oriente non è stato «sempre» come lo vediamo oggi. Alcuni decenni fa gli schieramenti erano molto diversi da quelli attuali.
Agli albori del conflitto israelo-palestinese, per esempio, l’Egitto era il paese più antiamericano di quell’area; Iran e Arabia Saudita andavano d’accordo tra loro e si contendevano i favori degli Stati Uniti; i palestinesi avevano una leadership laica, refrattaria all’islamismo. Gli antefatti degli schieramenti odierni risalgono alla fine degli anni Settanta, un periodo segnato da guerre e rivoluzioni.
Fino al 1979 in Iran regnava lo Scià di Persia, che aveva voluto una serie di riforme modernizzatrici: per esempio, i diritti delle donne iraniane e il loro livelli d’istruzione erano fra i più avanzati di tutto il Medio Oriente. In questo lo Scià Reza Pahlavi si situava nella continuità del regno di suo padre, il quale aveva addirittura tentato (brevemente, negli anni Trenta del secolo scorso) di vietare il velo integrale. Della tradizione persiana faceva parte anche la tolleranza verso la comunità ebraica locale, la più antica di tutte le diaspore in Medio Oriente.
Lo Scià anche in questo si era mostrato fedele all’eredità storica. All’origine della Partizione della Palestina nel 1948 ammonì che avrebbe portato a un conflitto per molte generazioni, però nel 1950 Reza Pahlavi riconobbe lo Stato d’Israele, con cui mantenne rapporti eccellenti fino alla fine del suo regno.
Di fatto Iran e Israele erano alleati, uniti non solo dall’appartenenza al campo occidentale durante la guerra fredda, ma anche da obiettivi interessi comuni: le forze anti-israeliane e l’opposizione che voleva rovesciare lo Scià spesso cooperavano tra loro, in particolare nei campi di addestramento terroristici del Libano. Anche l’Arabia Saudita, pur solidarizzando con il popolo palestinese, si riconosceva nel sistema di alleanze anti-Urss e anticomuniste, imperniate sulla leadership dell’America.
Sul fronte opposto c’era l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, paese nordafricano ma legato al Medio Oriente dal punto di vista geopolitico; era il più importante degli alleati dell’Unione Sovietica in quest’area e il più importante sostenitore della causa palestinese. L’antica autorevolezza religiosa dell’Egitto tra i popoli islamici – legata al ruolo dell’università Al-Azhar del Cairo – era finita in secondo piano rispetto a un’altra leadership, quella laica, secolare, politica di Nasser. L’ex colonnello venuto al potere con un colpo di Stato era diventato il principale fautore del nazionalismo panarabo, a cui aggiungeva un’ideologia socialista. Il prestigio di Nasser nel mondo arabo era stato esaltato dalle vicende del 1956, quando l’Egitto aveva tenuto testa all’aggressione congiunta di Inghilterra Francia Israele. Poi però aveva ricevuto un colpo fatale nel 1967, con la sconfitta contro Israele nella Guerra dei Sei giorni. Nasser non si era più ripreso, fino alla morte nel 1970. L’anno prima della sua morte, nel 1969, i palestinesi riuniti nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si erano dati un nuovo leader: Yasser Arafat. Tutto fuorché un islamista: Arafat era più vicino al Dna ideologico di un Nasser, che ai Fratelli musulmani.
Per i Fratelli musulmani – e per tutte le organizzazioni che ne sono derivate, incluso Hamas – i popoli arabi non dovrebbero essere divisi per nazionalità bensì riuniti nella Ummah, la comunità dell’Islam, idealmente sotto un Grande Califfato o Stato islamico. Arafat invece era un nazionalista.
In cerca di nuovi protettori, aveva subito un rovescio terribile in Giordania: nel 1970 il re Hussein aveva ordinato una repressione cruenta contro i commandos dell’Olp sul suo territorio (il «Settembre nero» di Amman). Un altro colpo tremendo all’Olp sarebbe venuto sette anni dopo: la visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme e il suo discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano. Era il preludio ai negoziati di pace fra Egitto e Israele sotto la mediazione del presidente Usa Jimmy Carter. Sadat era anche il protagonista di un cambio di alleanze clamoroso, traghettava l’Egitto dal blocco sovietico a quello americano.
È in quel 1977 che Arafat, sentendosi tradito da Sadat e isolato, inaugura una nuova stagione di alleanze. Le cui conseguenze vengono pagate tuttora, anzitutto dallo stesso popolo palestinese. L’episodio chiave è ricordato da una grande giornalista di origini libanesi, Kim Ghattas, per vent’anni corrispondente della Bbc in Medio Oriente, nel suo libro «Black Wave». Nel 1977, Arafat coglie l’occasione di un grave lutto familiare per rendere omaggio a una figura allora poco conosciuta in Occidente, ma ben nota in Iran: l’ayatollah Khomeini. Quando muore all’età di 47 anni suo figlio Mostafa Khomeini, l’ayatollah vive in esilio in Iraq. Fino a quel momento è solo uno fra tanti leader dell’opposizione allo Scià, anzi delle opposizioni al plurale: contro il regime monarchico si battono diverse correnti islamiche, nonché organizzazioni laiche di tipo socialista, comunista, o democratiche.
È in Iraq che Khomeini riceve un messaggio di condoglianze di Arafat, l’inizio di una relazione destinata a cambiare la fisionomia politica del Medio Oriente.
Khomeini sfrutta fino in fondo questa relazione. Impadronendosi della causa palestinese sconvolgerà il paesaggio politico del Libano e di tutto il Medio Oriente».
L’11 febbraio 1979 l’ultimo premier dello Scià, Shapour Bakhtiar, è costretto a fuggire da Teheran. Quel giorno la rivoluzione trionfa in Iran e Khomeini si appresta a imprimervi la sua egemonia. Arafat si considera l’altro vincitore di quell’evento: è sicuro di aver scommesso sull’alleato giusto. Con un bel po’ di arroganza, è perfino convinto che la rivoluzione iraniana sia merito suo
Il nuovo regime teocratico di Teheran, almeno all’inizio, sembra confortare questa narrazione. Il 17 febbraio 1979 Arafat è il primo leader straniero a visitare l’Iran rivoluzionario, alla guida di una delegazione dell’Olp dove figura un giovane Mahmmoud Abbas (oggi il suo successore, l’88enne presidente dell’Autorità palestinese). Al suo atterraggio a Teheran, Arafat non si trattiene. L’aeroporto è assediato da iraniani che vorrebbero fuggire all’estero, e gli americani stanno evacuando i loro connazionali su diversi aerei da trasporto militari Hercules C-130 della U.S. Air Force. Arafat parlando all’interno del terminale si dichiara il vincitore alla pari con Khomeini: «La rivoluzione dell’Iran non appartiene solo agli iraniani, appartiene anche a noi. Ciò che voi avete realizzato è un terremoto. Il vostro eroismo ha scosso il mondo, Israele, e l’America».
Il proclama di Arafat viene seguito in tutto il mondo arabo. In quella fase tanto euforica quanto caotica, quasi tutti sembrano sottovalutare le differenze profonde tra l’Iran sciita e il mondo arabo a maggioranza sunnita; o tra l’ideologia nazionalista e socialista dell’Olp e il fanatismo islamico di Khomeini. Nei cortei di piazza in diverse nazioni arabe appaiono degli striscioni con uno slogan che contiene un sinistro presagio: «Lo Scià è finito. Domani tocca a Sadat».
Il presidente egiziano, «colpevole» di aver firmato la pace con Israele, verrà assassinato due anni dopo (1981) in una congiura di Fratelli musulmani. In effetti proprio mentre Khomeini s’impone in Iran e Arafat si precipita da lui a «condividere» quella vittoria, le prime pagine dei giornali di tutto il mondo affiancano due eventi dal Medio Oriente: la deposizione dello Scià da una parte, dall’altra gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele. Il canto di vittoria di Arafat all’inizio sembra confermato dai fatti. L’Olp ha perso un alleato importante come l’Egitto ma ne ha guadagnato un altro dal peso geopolitico rilevante. Subito dopo l’arrivo di Arafat a Teheran, il nuovo regime taglia i rapporti con Israele. I diplomatici israeliani sono evacuati. Inizia un «ponte aereo» per portare in salvo migliaia di ebrei persiani, l’epoca della tolleranza per loro si chiude di colpo. Ma il successo dell’Olp è di breve durata. Arafat, alla pari di tutte le sinistre nazionaliste del mondo arabo (e di tanti intellettuali occidentali) non capisce che gli esordi di Khomeini non promettono nulla di buono per lui e per i suoi compagni di strada. Subito dopo la vittoria di Khomeini il clero al comando del paese instaura i suoi Tribunali della Rivoluzione. Le condanne a morte – per impiccagione o lapidazione – vengono fabbricate a gran velocità. Centinaia di esecuzioni colpiscono ufficialmente i membri della famiglia reale, i collaboratori dello Scià, i trafficanti di droga.
In realtà tra i bersagli ci sono fin dall’inizio i separatisti delle minoranze etniche (Kurdistan, Gonbad, Khuzestan) e i leader della sinistra marxista. Questi ultimi si erano illusi di manipolare Khomeini e orientarlo verso una rivoluzione socialista: il risveglio è spaventoso. Khomeini non perde tempo nel ribaltare la situazione anche con l’Olp. Appena installato al potere, l’ayatollah comincia a far pressione su Arafat perché definisca la sua organizzazione come un movimento di «resistenza islamica». Un’etichetta impossibile vista la storia e l’ideologia dell’Olp, la cui base militante non era affatto religiosa.
Già sul finire del 1979 l’alleanza si stava logorando. I capi e militanti palestinesi accorsi a Teheran, osservando da vicino l’instaurazione di una dittatura religiosa, cominciarono a definire gli iraniani come dei «matti da legare». Gli ayatollah a loro volta erano disgustati da quei palestinesi che non pregavano, bevevano alcol, andavano a donne. La divaricazione era cominciata presto. Nel conflitto fra Khomeini e Arafat alla fine i vincitori sarebbero stati gli ayatollah. Tra gli sconfitti: il popolo palestinese.
Khomeini, appropriandosi della causa palestinese e rompendo con Israele, fece un investimento politico; voleva diventare il difensore di una causa popolare nell’intero mondo arabo, per far dimenticare alla maggioranza sunnita di quel mondo la propria appartenenza allo scisma sciita, e così preparare una lunga guerra per l’egemonia sull’Islam. «Se Arafat non voleva entrare a far parte di una resistenza islamica – scrive Kim Ghattas – ora l’Iran aveva i mezzi per crearsene una, organizzando quei palestinesi e quei libanesi attratti dal fondamentalismo di Khomeini. Dentro l’opposizione palestinese ad Arafat ci sarebbero stati dei fondamentalisti islamici, come Hamas, e avrebbero cercato sostegno in Iran».
Da quell’incontro-scontro Khomeini-Arafat, da quel matrimonio breve e fondato sugli equivoci, ha origine nel 1979 una nuova strategia per costruire l’impero persiano del nostro tempo, irradiando ideologia jihadista e armi a milizie in tutto il Medio Oriente. In questo bilancio di mezzo secolo il popolo palestinese esce sconfitto perché il suo scivolamento nell’orbita della teocrazia sciita ha accelerato la presa di distanza di tutto il mondo sunnita moderato.
Dopo l’Egitto e la Giordania, anche l’Arabia saudita e gli Emirati (essendo nel mirino dell’espansionismo iraniano) hanno preso le distanze dai palestinesi. In quanto all’erede dell’Olp di Arafat, l’Autorità palestinese, la sua forza originaria è stata distrutta insieme con la sua legittimità popolare: rovinata dalla corruzione e dall’incapacità dei suoi leader come Mahmoud Abbas, e sotto gli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah sostenuti dall’Iran.
In questo gioco al massacro si è poi infilata la destra israeliana: da Ariel Sharon a Benjamin Netanyahu ha sempre assecondato l’asse Hamas-Iran a Gaza, per indebolire l’Autorità palestinese, dividere il fronte avversario, togliere credibilità alla prospettiva di due Stati.