Le liste elettorali del Pd sono un’opera d’arte surrealista, anche se alla fine non dovesse arrivare la ciliegina finale del nome di Elly Schlein dentro il simbolo dell’unico partito italiano fin qui non ammalato di leaderismo.
I nomi dei capilista del Pd alle Europee sembrano uno scherzo mal riuscito, tanto da non stupirsi se da un momento all’altro Schlein pubblicasse una storia su Instagram col tono «ci hai creduto, faccia di velluto».
I capilista Pd alle Europee trasformano quello che una volta era il partito a vocazione maggioritaria (Veltroni, scusali) in un’accozzaglia di sedicenti pacifisti, ma in realtà volenterosi e ignari complici delle mire imperialiste di Putin, con un occhio di riguardo all’anticapitalismo di maniera, ma senza la nobiltà dell’ideologia comunista, solo con l’impostura dell’attivismo dei cuoricini social. E poi, immancabile, la solita rincorsa al populismo dei Cinquestelle, questa volta addirittura candidando un’ex europarlamentare grillina poi transitata dai Verdi.
Con Eleonora Evi c’è l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio che, a parte non curarsi delle strazianti richieste di aiuto degli ucraini bombardati quotidianamente dai russi, sui diritti civili ha posizioni reazionarie, perfettamente speculari a quelle di Alessandro Zan, addirittura candidato in due circoscrizioni, noto per le sue battaglie di bandiera e soprattutto per non essere capace di portarle a compimento.
Restando sui capilista, cioè sui candidati che più di altri rappresentano la linea del partito, ci sono l’ex capo dei pensionati della Cgil Ivan Pedretti, e quel Sandro Ruotolo che per decenni ha fatto da Robin a Superman Michele Santoro nel bersagliare in diretta tv la sinistra contemporanea e nell’apparecchiare la tavola al populismo giustizialista di Beppe Grillo e non solo.
In questo cast da film di Buñuel, ci sono però un paio di eccezioni: le due numero 3 al Nord Ovest e al Sud, le eurodeputate uscenti Irene Tinagli e Pina Picierno, e sarebbe mancato solo che Schlein non avesse valorizzato il lavoro di Tinagli da presidente della commissione per i problemi economici e monetari di Bruxelles e di Picierno da vicepresidente del Parlamento europeo.
E però, per esempio, Giorgio Gori non compare nella testa di lista al Nord ovest, ma è solo sesto, con il milanese Pier Maran ottavo ed Emanuele Fiano dodicesimo (le battaglie contro l’antisemitismo oggi si portano di meno).
La composizione delle liste Pd è importante perché, in questo momento cruciale per le sorti dell’Europa, a Bruxelles serviranno tanti bravi parlamentari socialisti, oltre che popolari moderati e una presenza forte dei liberali di Renew, ma questi deputati socialisti serviranno a poco, anzi saranno un problema enorme, se la delegazione italiana del Pd sarà composta da eurodeputati che poi voteranno no agli aiuti all’Ucraina, no alla difesa europea e no alle politiche per respingere e far pagare i danni all’invasore Putin.
Questa è la questione più importante del nostro tempo: a Bruxelles ci sono già i sovranisti e gli amici di Putin, per questo le famiglie politiche tradizionali non possono fare scherzi e permettersi défaillance, soprattutto se a novembre dovesse vincere in America il campione del no agli aiuti all’Ucraina a maggior gloria di Putin.
I riformisti del Pd ancora una volta hanno rinunciato a fare una battaglia politica strategica, ma si sono concentrati su manovre senza visione e su accordi personali limitati a salvaguardare questo o quel candidato, a cominciare da Stefano Bonaccini che era partito per contendere lo scettro del partito a Schlein ed è finito con ideare l’ipotesi di mettere il nome della segretaria nel simbolo delle Europee.
C’è da augurarsi che nel gioco delle preferenze i candidati buoni prevalgano su quelli del comitato studentesco, ma è altrettanto auspicabile che il Pd schleiniano vada male alle elezioni, a maggior ragione se ci sarà il nome della segretaria sul simbolo, in modo da archiviare al più presto questa stagione adolescenziale e inaugurarne un’altra più adulta.
Va costruita già adesso l’alternativa all’attuale gruppo dirigente Dem, non solo ai seguaci di Schlein che abilmente hanno occupato il Pd, ma anche alla cosiddetta “ditta” che trascina il partito verso una nostalgica ininfluenza, ai manovratori alla Franceschini e anche a quel che resta dei riformisti.
Qualcuno tra i non corresponsabili dello svuotamento di senso del Pd si dovrà intestare un’iniziativa politica nuova e capace di coinvolgere di nuovo i padri nobili – Veltroni, Gentiloni, Rutelli – e di disintossicarsi dal populismo a Cinquestelle per sostituirlo con un’alleanza strategica con i più affini Renzi, Bonino, Calenda, i socialisti, i liberali, i radicali, i repubblicani.
Qualcuno si dovrà fare avanti e offrire al paese una visione credibile per il futuro, europea, occidentale e maggioritaria, come sta facendo il segretario socialista inglese Keir Starmer, dopo la sbandata nostalgica del Labour per Jeremy Corbyn, o come ha dimostrato da poco l’ex cofondatore di Solidarnosc e attuale premier liberal polacco Donald Tusk, uno capace di sconfiggere nel suo paese la destra populista che sembrava invincibile.
Facciamo dunque tanti in bocca al lupo per il 9 giugno a Pina Picierno e a Giorgio Gori, ma anche a Irene Tinagli, a Pier Maran, ad Alessandra Moretti e tanti altri come Lia Quartapelle e Filippo Sensi che non sono candidati. Ma li aspettiamo con impazienza dal 10 giugno.