Sei cose che so sulla scuola, di G. Romano

(da il Post) Da sette anni insegno nella periferia nord di Milano: è una scuola media popolare, multietnica e ricca di iniziative e proposte. Genitori molto attivi, tante lingue e religioni, colleghi motivati e una creatività di fondo nella gestione. Negli anni precedenti ho conosciuto tante realtà diverse, ho insegnato nelle paritarie, in quartieri “ricchi”, in quartieri “a rischio”, con ragazzi a “rischio”, in progetti di didattica sperimentale fuori dalle aule e in percorsi di rinforzo specifico per DSA, acronimo che sta per Disturbi Specifici di Apprendimento. Dopo diciotto anni di insegnamento credo di avere imparato poche cose sulla scuola, ma chiare.

Prima però vorrei dire che l’atteggiamento intellettualmente predatorio con cui negli ultimi tempi ci si serve della scuola per esprimere o imporre visioni del mondo, della società e perfino della religione non giova al mondo, né alla società, né alla religione ma soprattutto non giova alla scuola. Frotte di adulti potenti si affollano con parole cariche di teoria intorno ad adolescenti che vorrebbero solo essere presi sul serio ed essere presi per quello che sono, e questo porta a una separazione sempre più netta tra realtà e teoria. In mezzo stiamo noi: gli operatori della scuola. La scuola, come la vita, è qualcosa di più grande di noi. Per starci dentro bisogna guardare chi c’è, accogliere chi c’è, stare con chi c’è. A noi insegnanti succede ogni volta in cui entriamo in aula con un preciso programma e la giornata ci trascina da tutt’altra parte: se ti irrigidisci la scuola ti uccide, se segui la realtà avrai il privilegio di vivere un’avventura.

La prima cosa chiara che so sulla scuola è che insegnare è un mestiere. Io l’ho scelto principalmente per far fronte alla povertà: quella cosa che decidi di studiare letteratura all’università, ma rimani con 8 euro sul conto il 20 del mese, non ne puoi più di mangiare pasta in bianco la sera e se si rompono le scarpe è un casino. Essere pagata dallo Stato 1400 euro al mese per provare a insegnare letteratura mi sembrò una buona soluzione. Prima di abbandonare le mie velleità di scrittrice e letterata, però, mi volli mettere alla prova, partecipando a un doposcuola cattolico popolare in zona Corvetto a Milano. Là un gruppo di suore vestite di grigio, senza velo e con orribili tagli di capelli faceva qualcosa che al tempo mi pareva incomprensibile: sostenere nello studio adolescenti di tutte le etnie convinti di essere per lo più abbandonati da Dio e dagli uomini. Tre volte la settimana attraversavo Milano, bevevo un caffè all’angolo e poi perdevo la pazienza dalle 15 alle 17. Provare a insegnare qualcosa era come picchiare la testa contro il muro. Nascondevo il naso nella sciarpa da intellettuale che portavo al collo se gli odori dell’adolescenza e gli aromi dei piatti esotici mi facevano venire il voltastomaco, quando uscivano da bocche, ascelle e magliette.

Poi un giorno le suore mi hanno affidato Pedro. Era nato in America del Sud, ma non ci era rimasto un tempo sufficiente per imparare lo spagnolo come si deve. La sua famiglia aveva vagato in diversi stati europei prima di stabilirsi in Italia e nessuno tra genitori e fratelli aveva potuto o voluto dedicarsi a lui, stimolando la sua lingua o la sua mente. Mai andato a scuola: una vita fatta di cibo spazzatura, tv e solitudine. Quando Pedro era arrivato in Italia, intorno agli otto anni, non riusciva a imparare l’italiano: nella sua mente turbinavano lingue mescolate tra loro senza soluzione di continuità. Quando era sbarcato alle medie era praticamente muto, si esprimeva in una interlingua incomprensibile, e per questo a scuola lo chiamavano “ritardato”, come si diceva una volta.

Io e lui ci incontravamo davanti a libri di testo che ai suoi occhi non avevano alcun senso. Lo osservavo e lo sentivo biascicare frasi incredibili, quasi dantesche, un volo inconsapevole tra registri linguistici che Edoardo Sanguineti neanche per sogno. Era vero che la sua lingua lo rendeva incomprensibile e solo, ma anche che quella solitudine mi pareva di averla già conosciuta, mi pareva di averlo già incontrato uno come lui in In memoria di Ungaretti: «Si chiamava Moammed Sceab Discendente di emiri di nomadi suicida perché non aveva più Patria Amò la Francia e mutò nome Fu Marcel ma non era Francese e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi».

Ripensando a quella poesia qualcosa mi si è mosso dentro come un’epifania: all’improvviso Pedro non mi sembrava più un cicciottello sudamericano con l’occhio triste e l’ascella all’aglio, ma un ragazzo senza appartenenza, come Moammed Sceab che, nella Parigi di inizio secolo, secondo Ungaretti, non riusciva a risolvere nella poesia il senso angoscioso dell’abbandono, della mancanza di patria. Ma che cos’è questa patria, questa parola oggi così abusata? Cos’è la Patria per Moammed, per Aisha, per Irvin, per Pedro, per tutti i ragazzi e le ragazze, definiti “stranieri” da alcuni politici anche quando sono nati in Italia e parlano l’italiano, che ci troviamo davanti nelle nostre aule tutti i giorni?

Me lo sono domandata anche quel giorno con Pedro, poi ho capito che tutto ciò che lui aveva, in fondo, era quella stanza del doposcuola delle suore a Corvetto, quel momento insieme. Quello spazio condiviso con me era la sua patria. E questa è la seconda cosa chiara che ho imparato sulla scuola: è un luogo neutro, libero, che nasce vuoto e viene riempito da chi lo abita, ogni volta in modo diverso. La condivisione, lo stare insieme, l’incontrarsi crea l’esperienza di una appartenenza, l’esperienza di una comunità, e l’essere messi in relazione gli uni con gli altri restituisce dignità agli individui più di una “patria” sul passaporto, di un bollino di riconoscimento.

Ho lavorato con Pedro fino alla fine dell’anno con questa consapevolezza ed è successo che siamo diventati amici, non mi faceva più schifo il suo odore di aglio e di fritto. Gli accarezzavo la testa ed ero felice, anche se l’italiano alla fine non gliel’ho insegnato. Si, qualche vocabolo nuovo, compilare qualche schedina, leggere un paio di righe in lingua italiana accettabile. Ma il valore delle cose che fai non è nel loro risultato, e questa è un’altra cosa che so sulla scuola, la terza.

Dopo Pedro ho abbandonato il corso di sceneggiatura e cambiato piano di studi, la scrittura e la letteratura mi sono restate nel cuore, ma per poter arrivare a vivere di scuola, quella vera, dovevo dedicare molto più tempo a preparare concorsi e test che avevano e hanno ancora dell’assurdo. Ho scoperto ben presto che una classe reale è molto più complessa della stanza del doposcuola di Corvetto. Ogni classe è un organismo articolato, con un suo sistema cardiocircolatorio, un suo respiro, le sue allergie e i suoi punti di forza. Solo i docenti, i dirigenti e i ragazzi conoscono il funzionamento di questa forma di vita imperfetta e potente dove studenti eccellenti si mescolano a disabili, a ragazzi con disturbi di apprendimento, o che non parlano italiano o che parlano diverse sfumature di italiano. Tutti sono degni, tutti sono utili in questo organismo ed è giusto tenere dentro ciascuno di loro, facendo salti mortali tripli e carpiati tra burocrazia, mancanza di risorse, strutture che spesso non aiutano.

I vescovi parlano di dialogo, i giornalisti celebrano o stigmatizzano provvedimenti e circolari che vengono usate e si trasformano in polemiche sensazionaliste ma inutili, i politici di ogni schieramento fanno sparate proponendo letture quasi sempre distanti dalla realtà. Solo noi sappiamo com’è una giornata di scuola, con i suoi abissi e le sue grandezze, la noia e l’entusiasmo. Siamo noi a gestire quelli che sulla carta sono numeri, e nelle aule sono persone.

Sul sito del ministero dell’Istruzione e del Merito c’è un report datato 2023 da cui apprendo che «I dati 2021/2022 confermano una maggior concentrazione nelle regioni settentrionali (65,5%) a seguire nelle regioni del Centro (21,9%) e infine del Mezzogiorno (12,6%). La Lombardia permane la regione con il più alto numero di studenti con cittadinanza non italiana (222.364 unità) con un quarto del totale presente in Italia (25,5%), laddove la regione assorbe il 15,4% degli studenti con cittadinanza [non] italiana. […] Sono quasi 200 i Paesi di cui sono originari gli studenti con cittadinanza non italiana. I dati suddivisi per continente evidenziano che la maggior parte degli studenti, ovvero il 44,06%, è ancora, come in passato, di origine europea seppur in lieve diminuzione, seguono gli studenti di provenienza africana (27,56%) ed asiatica (20,52%)». Quest’anno su un totale di 7.194.400 gli studenti figli di genitori stranieri sono quasi 888.880 mila, ma oltre il 66 per cento di loro sono nati in Italia. Sono statistiche che non dicono nulla, o molto poco, sulla conoscenza della lingua italiana e quindi sulle ragioni per cui la loro presenza in classe dovrebbe essere dannosa per gli altri. Sui cosiddetti “Nai”, cioè i “Neo arrivati in Italia”, che inevitabilmente non parlano bene la lingua, non sembrano esserci dati certi. Alcuni parlano del 3-4%, il Giornale spara 55.300, ma lo fa citando statistiche del 2007-2008 e senza dire che sarebbe appena lo 0,7%.

Di fronte a dati del genere sono sempre più convinta della quarta cosa chiara che so sulla scuola: non si può cambiare la realtà ma si può provare a dirigere le risorse dove servono, quando servono. E quando ci sono vere risorse, la lingua non è più un ostacolo.

La mamma di Ivan mi ha raccontato di aver vissuto nel buio di una cantina con i suoi figli per venti giorni di seguito, sotto le bombe, prima di arrivare in Italia. Di suo marito, papà di Ivan, non si sa più niente. Ivan è stato inserito in aula un giorno di primavera e a nulla sono valsi gli sforzi dei compagni e i nostri di docenti: sorrideva solo quando parlava in ucraino con l’albero in cortile, per il resto del tempo guardava nel vuoto davanti al suo banco. Ivan non è arrivato con un pacchetto di aiuti garantiti: richiesta di mediatori, attivazione di progetti, ore di burocrazia e telefonate alle associazioni di mediatori e di educativa speciale sono state azioni tutte a carico dell’istituto per cercare di accompagnarlo in modo dignitoso anche all’esame di terza media. All’esame abbiamo ottenuto la presenza di una mediatrice linguistica ucraina e il tema di Ivan tradotto in italiano ha meritato un otto pieno. Ivan sorrideva mentre scriveva, affiancato da chi lo poteva capire e far sentire a casa.

Per ragazzi in simili situazioni non sono previsti percorsi differenziati chiari e strutturati, non esistono pacchetti di aiuto standardizzati e avviati, sta tutto all’istituto che li accoglie, a cooperative, a collaborazioni che richiedono tempo, fatica, la dedizione dei dirigenti, delle funzioni strumentali per stranieri, nostre. Ragazzi come Ivan arrivano con un carico terribile sulle spalle e gli si chiede di fare tutto più o meno come tutti, per esempio sostenere i test Invalsi, coi risultati che facilmente si possono immaginare e che spesso vengono spiattellati nelle pagine dei giornali, come se l’Invalsi fosse un sistema efficace per fotografare davvero il complessissimo mondo-scuola.

«È proprio vero che se viene chiesto ai pesci di volare e alle aquile di nuotare non si scoprirà mai se l’aquila o il pesce in questione siano geniali o no». Questa frase, attribuita erroneamente ad Albert Einstein, è scritta sul muro del plesso della primaria del mio attuale istituto, ed è la quinta cosa chiara che so sulla scuola: riguarda il merito, il merito vero, che tutti ci auguriamo venga presto introdotto come criterio a tutti i livelli di scuola. «Nuota se sei pesce, vola se sei aquila, il tuo merito sarà scoprire fino in fondo te stesso, col nostro sostegno».

Purtroppo molti operatori della scuola si appiattiscono sull’idea di una scuola “mercato”, dove l’offerta formativa e l’autonomia diventano forme di consumo, come se la progettazione e la didattica fossero confezioni di detersivo in offerta. A me piace pensare che siano più numerosi gli insegnanti che cercano di leggere il mondo insieme ai ragazzi, anche con parole cangianti e nessuna scrittura, se la situazione lo richiede.

Intorno ai ragazzi c’è un mondo complicato, spesso doloroso, che va rispettato e a volte gestito. In questi diciotto anni di scuola ho consolato genitori, ho litigato con genitori, ho odiato genitori e ho imparato a fare il genitore da alcuni genitori. Qualcuno lo abbiamo anche denunciato per maltrattamenti. Con qualcuno ho condiviso festività religiose di cui non conoscevo l’esistenza. Ho visto ragazze pakistane venire a scuola senza velo in occasione di alcune feste di cui non ricordo il nome, e mi sono stupita della loro bellezza, nascosta in abiti troppo chiusi troppo a lungo. Ho parlato di Gesù Cristo e di Buddha con figli di spacciatori e con i figli dell’imam del quartiere.

Ho partecipato spesso a momenti che costruivano mondi nuovi partendo dai loro, di mondi, in particolare prima del Covid, quando non c’era l’ossessione per la privacy, per la salute, per le allergie, per i ricorsi, per le denunce, per l’igiene, per l’individuo, per l’affermazione di sé. In diciotto anni di scuola non ho incontrato solo Moammed Sceab. Ho incontrato giovani Madame Bovary, moschettieri unopertuttituttiperuno che si fanno sospendere insieme per dimostrare la reciproca lealtà, “Innominati” con il coltello a serramanico cavallerescamente depositato sulla mia cattedra per non avere la tentazione di usarlo nelle ore di scuola. Ho incontrato Hermione, i cowboys di Cavalli selvaggi che diventano uomini su motorini truccati, principesse indiane e un discreto numero di Dorian Gray.

In diciotto anni di scuola abbiamo organizzato spesso in varie scuole colazioni internazionali per celebrare di volta in volta feste diverse perché, come dicono i miei alunni, quando si mangia bene non importa che Dio c’è da celebrare. Sui banchi c’erano le teglie di riso patate e cozze accanto a cesti di alette di pollo alla bengalese, torte al cocco egiziane, gnocco fritto da pucciare nel chutney al mango, naan al formaggio e tortillas piccanti.

È bello ridere, mangiare, ballare insieme, sempre.

E questa è l’ultima cosa chiara che so sulla scuola.